The importance of being Rob Crow: part 2

Si può riuscire, ancora oggi, ad essere geniali, inventivi, incisivi nella musica pop? Il faccione barbuto e sorridente di Rob Crow, archetipo perfetto del nerd vincente (come si diceva? "Nati per perdere...") ci dà la risposta definitiva, immediata, perpetua: sì. E, credetemi: non è questione di sovraccaricare il proprio stile di centinaia di strumenti diversi - una spennellata di etnico, poi reminescenze classiche... diamine, la stoccata rock anticipata dal ritornellino twee con la chitarra twang, dov'è? -, come di emulare a tutti i costi i maestri del passato o, in mancanza d'altro, gli operosi, giovani mestieranti dei nostri tempi. No, il quid da addizionare è notevolmente più semplice: la capacità, innata o meno, di comporre belle canzoni. Di coniugare esperienze passate, presenti e future in un unico impasto omogeneo, di gettare il cuore oltre l'ostacolo e provare a rielaborare la necessità dell'alternanza strofa/ritornello/strofa secondo un gusto ed un ordine non soggetti a gigantismi esterni. Di fissare, infine, con pochi elementi a disposizione, uno straordinario universo di note, personaggi, sensazioni. Vi pare tutto molto vago e difficile? Continuate a leggere.

Dicevo, Rob Crow. Da sempre seguo i Pinback, sua creatura principale, attiva sin dalla seconda metà degli anni '90 (ve ne sono altre, certo... ma non dilunghiamoci). Si sono sprecate, a mio avviso, le etichette per cercare di incapsulare la loro musica: alternative pop, math-pop, post-pop, indie rock (!). Invano. Anzitutto, punto primo: sembrano sospesi in una dimensione ideale fra Sixties e Nineties, fatta di dolci carillon pop, quanto di chitarre incalzanti ed arrangiamenti semplici, ma assai eleganti. Ancora: incidono (incidevano?) per la Touch & Go. Qualcuno potrebbe definirlo un particolare di poca, se non alcuna, importanza. In realtà, l'estetica della label si rispecchia meravigliosamente nei loro brani, sempre ricchi di un nervosismo di sottofondo - si potrebbe definirlo, volendo, anche dinamismo - e capaci di riflettere svariati elementi del primo post-punk, come la ritmica spesso scomposta in brevi, secchi, crepitanti break. Tutto addolcito, s'intende (ma anche no). Infine: scordatevi cori, polaroid agresti a cappella - ed elevato deterioramento - tornate in voga con l'exploit dei Fleet Foxes, zucchero che piove a quintali sul metodo di composizione, portandolo alla rovina. Qui il materiale segue una linea molto più asciutta, definita, precisa. Più rock. Pensato ed idealizzato.

Non trascurando di dover procurarsi, a tutti i costi, almeno un capitolo della loro bella discografia (suggerirei "Summer In Abaddon", del 2004, con una perla come "Fortress"), concentriamo la nostra attenzione sull'ultimo - ancora per poco, spero - "Autumn Of The Seraphs", di ormai due anni fa. Undici pezzi scarni per power trio (ogni tanto fanno pure capolino le tastiere, ma è un puro orpello) a formare uno degli album-chiave dell'anno. A volerlo ridurre forzatamente in una parola, la scelta migliore cadrebbe su "circolare". Melodie avvolgenti, bei crescendo, chitarre che intarsiano un riff dentro l'altro, senza aggredire nè edulcorare le orecchie dell'ascoltatore. "From Nothing To Nowhere" è il primo sintomo, e nemmeno il migliore, di questa sorta di Eden: una sei corde veloce che graffia ma non ferisce, una serie di bellissimi incastri vocali ed un'invidiabile condotta strumentale, chiusi in una durata assolutamente potabile. Ancora meglio la successiva "Barnes", che scava solchi con un basso in grande evidenza e lenisce il dolore con un'andante a metà strada fra la ballata ed il tipico tirante fugaziano. A completare il terzetto, i grappoli di musicalità di "Good To Sea", via di mezzo fra Beatles e Slint. Tutto riesce mirabilmente a tornare eppure, sembrerà strano, la banalità è proprio l'ingrediente che, per un motivo o per l'altro, non riesce a trovare posto: refrain immediatamente memorizzabili, parole e sillabe che giocano a completarsi, ma ogni volta l'esercizio appare nuovo e non si fa in tempo ad annoiarsi.

Dopo una partenza così convincente, si potrebbe temere un netto calo di tensione negli episodi successivi. Invece, il disco prende sempre più forma e continua, pur mantenendosi sobrio, a sdoppiarsi, ibridarsi con vari generi, distinguersi per efficacia, ritornare in sè senza essersi scomposto. "How We Breathe" è un tuffo introspettivo per voce, chitarra, piano e drum machine, come i Radiohead di "Kid A" frantumati nello slow-core: "Subbing For Eden" si veste di brit, ma con la testa a "Fortress"; "Devil You Know" si schiude quasi a ritmo di blues, con un ritornello francamente irresistibile. Sarebbero anche credenziali sufficienti per meritare un'attenzione molto maggiore di quella che si riserva di solito a questo tipo di lavori, ma i Pinback vanno oltre, con una "Bouquet" che è territorio per dissonanze - ed, in generale, dove i Nostri si permettono un po' di tutto -, una ballad rock classica come "Off By 50" (che, non so come spiegarvi, vive in maniera totalmente diversa dalle sue amorfe colleghe) ed un singolo variegato del calibro di "Blue Harvest".

Se continuerete ad ignorarli, il vostro peccato diverrà mortale.

Perchè, diciamocelo: come si fa a non voler bene a Rob Crow?

Questa recensione è dedicata a Malaika

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