Nel 1987 c’eravamo e ci ricordiamo tutto benissimo. Il mondo della musica era lì con gli occhi puntati e pronto con il peggior ghigno supercritico. Roger Waters aveva lasciato la band da qualche anno, e non l’aveva lasciata bene: interviste di fuoco, critiche su critiche (con qualche delirio di onnipotenza che non l’abbandona neppure oggi e che, in fondo, ce lo rende pure simpatico…) nonché una spietata guerra in tribunale per l’uso del nome del gruppo (persa, naturalmente). I dischi dei Pink immediatamente precedenti, benchè bellissimi, erano in tutto e per tutto “deliri watersiani”. La partecipazione degli altri alle composizioni era ridotta al lumicino (soprattutto in The Final Cut) e l’uso di Gilmour & C. come meri strumentisti sarebbe apparso a chiunque come uno spreco, e probabilmente uno spreco ad orologeria...
Sono passati quasi vent’anni da allora, e qualche pietruzza sopra ce l’han messa pure loro, se sono comparsi al Live8 tutti insieme, per l’entusiasmo irrefrenabile di noi irriducibili fans, e tutto può dirsi cambiato. Come valutare allora, oggi, quest’album, a mente fredda ?

Gilmour la fa da padrone, scrivendo tutte le tracce del disco (alcune da solo, alcune con altri che non erano però gli altri due Pink), Mason si limita –per modo di dire…- a suonare la batteria e Wright compare solo come strumentista, neppure come membro effettivo della band.
Tutto lasciava pensare al terzo disco solista di David, travisato da qualcos’altro.
E invece no: il disco è, a mio avviso, bellissimo e diverso, suonato stupendamente e scritto decisamente bene. Certo non c’è l’impegno sociale di Waters, né la sua bellissima voce da pazzo sempre a un passo da una divina stonatura. Ma il disco c’è. Eccome.
Le parti di basso sono affidate alle sapientissime dita di Tony Levin, e non c’è bisogno di dire altro. La chitarra di Gilmour, negli ultimi trent’anni e più, non ha mai perso un colpo (persino al Live8 era l’unica cosa ancora intera al 100%…) e la sua voce, potente e roca, non è forse mai stata così bella.
E tutto è incredibilmente “floydiano”, dall’inquietante copertina alle parti strumentali e, in primissimo luogo, alle atmosfere.
Ecco: a quasi vent’anni piace riascoltare e ricordare quest’album come un disco di atmosfere, quasi una scuola di “floydianità”, impeccabile e perfetta da ogni punto di vista come solo il suo chitarrista/direttore sa essere.
Inutile soffermarsi sui brani. Il disco è musicalmente un “concept album” che va ascoltato d’un fiato, dall’inizio alla fine, possibilmente con mezzi che rendano giustizia ai suoni. Solo per dar sfogo alla soggettività dirò che personalmente preferisco Learning To Fly e One Slip alle altre tracce, ma molto relativamente…

Il mio personale consiglio è quello di riascoltarlo prima di pronunciarsi. Anch’io lo ricordavo diverso, e nel giudizio –come tutti- ero schiavo della visione dei Pink degli ’80 –’90, quelli degli show giganteschi a Versailles e a Venezia, e quelli dei troppi musicisti sul palco. Smettete questi panni, se li avete indosso come li avevo io, e mettetevi a sentire questo disco belli comodi sul vostro divano, come se non lo conosceste e fosse la prima volta. Se lo merita. Perché è la migliore opera del periodo senza Waters e, soprattutto, perché è bellissimo in sé.

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