Va bene, lo sappiamo, è uscito il fatidico Endless River dei Pink Floyd. Dopo aver digerito diversi ascolti, vi racconto le mie sensazioni.

Non farò una recensione track by track, non amo questo genere di analisi dove devi dire per forza qualcosa su ogni pezzo e, soprattutto, ha poco senso farlo con un disco dei Floyd! Premessa doverosa: stiamo parlando di un disco assemblato da settantenni, di outtakes provenienti da un disco (mediocre) registrato vent’anni prima da cinquantenni. Dunque, salvo miracoli, nessuno si aspetta capolavori modello anni 70, vero? Istruzioni per l’ascolto. E’ un disco dei Pink Floyd quindi si mette la prima traccia e in religiosa quietudine/inquietudine si ascolta fino all’ultima. Non è consigliabile l’ascolto di un pezzo solo. E’ spiazzante nella formulazione del giudizio e riconosco che può provocare conati di vomito. Ma i Pink Floyd si ascoltano così. In fondo che pezzo sarebbe Vera lyne se prima non ci fosse One of my turns e dopo l’accoppiata Bring the boys/Confortably numb? Andiamo ai fattori positivi dell’ascolto: è’ ovvia la mia predilezione per lunghe suites strumentali piuttosto che per le canzoni. Per quelle ci sono gli Eagles:-)! Il nostro, viva Dio, è un disco quasi esclusivamente strumentale. Questo ha scongiurato il pericolo che ogni pezzo dell’album fosse propinato nel formato classico strofa-ritornello-strofa-assolo finale di Gilmour. Di fatto, un suo, evitabilissimo, lavoro solista. L’album è invece composto da pattern (più o meno riusciti), uniti tra di loro come frammenti di un unico mosaico sonoro il cui esito, alla fine, merita il marchio che porta. Nonostante sia un’eco lontana dei lavori a formazione completa (con Waters), si apprezzano notevoli suoni di tastiera, più o meno vintage, sempre evocativi, suggestivi, a volte autocelebrativi (i Floyd lo sono per definizione, ma questa volta, dicono, lo sono per Wright) e autoreferenziali del passato, quello a 24k si intende (e dopo quasi 50 anni ci può stare). Bene i cambi di registro, benissimo la resa basso-batteria (davvero non possiamo chiedere di più a Mason), ottimo il sapore alla fine dell’ascolto. Se proprio lo vogliamo dire, è proprio la chitarra a non essere al passo con il blasone della casa, poco ipnotica, poco magnetica, poco graffiante, troppo vicina agli assoli melodici di On the Island. Tirando le fila del discorso, il paradosso di questo disco è che getta giù dalla torre proprio il fratello maggiore (Division Bell, composto, appunto da “canzoni”, di cui ne salvo solo tre!) dalla cui produzione deriverebbero gli “scarti” che, rimaneggiati, hanno composto questo lavoro. Passiamo alle critiche, inevitabili. Dal principio, la copertina. Un’immagine con i colori dei ricordini delle bancarelle dei santuari, didascalica, facile, lontana anni luce dai lavori del sesto Floyd, Storm Thorgerson. Quasi a giustificare la bruttura iconografica è stata subito diffusa la notizia che trattasi di una creazione di un diciottene indiano, facendo passare la cosa quasi come la buona azione quotidiana del gruppo. Perché, mi chiedo, non si poteva scegliere un diciottenne inglese, indiano, moldavo…ma all’altezza della situazione? Altro appunto: la produzione affidata a Manzanera e Youth. Bypassando il primo, dal secondo (produttore di Orb e del bel lavoro Metallic Spheres con un Gilmour vero alla chitarra) mi sarei aspettato qualcosa di più, diciamo un piglio nelle scelte più da terzo millennio, svecchiato, un po’ come fece il duo Eno/Lanois con gli U2, rivoluzionandone il suono. Altra scelta deprecabile ed incomprensibile: escludere tre pezzi ben riusciti dal disco ufficiale “base” per includerli solo nel cofanetto 5.1 per sfondati che capiscono poco di musica quanto di alta fedeltà.

Alla fine della fiera è inevitabile la domanda: “ma c’era bisogno di questo disco”? A mia opinione no. Trattandosi di jam session ormai datate, invece di un disco stand alone, avrei impacchettato il tutto in un bel cofanetto (senza troppe menate) fatto di registrazioni live della band dell’epoca d’oro, magari corredate da video, di cui c’è tanto, ma tanto bisogno (a parte Pompei non abbiamo nulla; i Led Zeppelin invece hanno fatto più cofanetti che concerti).

Concludendo, Endless River è un disco da ascoltare, avendo però l’accortezza di tenere a mente la premessa e seguire le istruzioni di cui sopra. Nel business musicale Pink Floyd è un brand di lusso e come qualsiasi prodotto di lusso trasforma in oro anche quello che non luccica. Anche se fatto di penne da oche malamente spennate, avete mai incontrato qualcuno che dice che il Monclair è brutto?

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