La mucca dei Pink Floyd dà ancora latte… Quest’album uscito qualche mese fa contiene l’esecuzione integrale della (cosmicamente) celebre suite, in occasione di un concerto tenutosi a Wembley, Londra, nel 1974.
I quattro Floyd erano in quel momento all’apice della carriera, ancor giovani ed in ottima forma. E suonano bene, molto affiatati: Gilmour sciorina la sua voce giovanile, potente e affabilmente rauca da blues rocker nel fiore degli anni, Mason è preciso e pulito, Waters puntuto e adeguato, Wright equilibrato e mistico.
I brani scorrono organicamente gli uni negli altri, spesso e volentieri più estesi che nella versione in studio, tanto che il disco dura ben 55 minuti, un quarto d’ora di più. Le dilatazioni riguardano per cominciare l’intro “Speak to Me”, in cui la cassa in quattro indugia a lungo prima di pilotare il crescendo parossistico che finisce poi in “Breathe”; anche “On the Run” si attarda assai… la lotta di sintetizzatori fra Waters e Gilmour a rappresentare il delirio e la fretta della vita moderna supera i cinque minuti.
I quali diventano quasi sette nella mirabile “The Great Gig in the Sky”, purtroppo ridimensionata dalla performance di entrambe le coriste di colore, indegne neanche di allacciare le scarpe alla primigenia, inimitabile Clare Torry (bianca, bionda, ma con cento volte più soul e gospel nel cuore e nelle tonsille delle due signorine performanti a Wembley).
Su “Money” si esagera con i break di chitarra e sax, i quali la spingono oltre i nove minuti; le tiene testa “Us and Them”, stesso minutaggio e col povero Rick che la canta benissimo (R.I.P.), fino a lasciarla sfociare nello strumentale “Any Colour You Like”, vale a dire altri otto minuti di pacata, atmosferica jam session fra i quattro amiconi che furono.
Non mancano certo le decine di effetti speciali, in primo piano come sempre gli orologi di “Time” e poi le voci dei tanti personaggi intervistati dai Floyd e finiti a far parte dell’opera, i rumori ecc. Cerco d’immaginarmi il lavorio dei tecnici, dietro il palco, per far partire e fermare in sincronia tutti quei nastri, a quel tempo in cui non esistevano personal computer e similia…
La musica è prodotta e missata benissimo; gran bei suoni che ricreano perfettamente lo stile rilassato e pulito della musica floydiana. Un vero piacere ripassarsi le gesta del giovane e aitante Gilmour, del tranquillo Wright, dello smanioso Waters, dell’equilibrato Mason. Per vecchioni come me l’emozione è forte, con queste esecuzioni d’epoca che trascinano la mente nei ricordi e nelle situazioni del tempo assai di più che ascoltando le classiche versioni in studio, sempre fresche grazie ai passaggi perenni fra radio e televisione, o dagli ascolti casalinghi dell’album nero, presente com’è in ogni casa di appassionato di rock o quasi.
A proposito di copertina: invece che nera è bianca ed è una chicca, rappresentando lo schizzo definitivo, prima della sua realizzazione, del suo designer ed ideatore Storm Thorgerson, un genio pure lui. Il concerto onorato da quest’album non mi risulta però mai sentito: mi pare che sia circolato a suo tempo nei bootleg (certo non con la qualità sonica qui presente) e poi, recentemente, sia finito insieme a tanta altra roba in uno di quei mega cofanetti faraonici da centinaia di euro, quelli con dentro almeno una dozzina di dischi.
Fra mille anni si eseguiranno ancora queste musiche e questi testi, volendo negli stessi teatri e auditorium in cui il giorno prima magari vi sia stata una serata in onore di Mozart ed il giorno dopo una dedicata a Chopin… arte immortale del ventesimo secolo insieme ad altre immortalità di altri secoli. Amen.
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