L'anno del centocinquantenario dello Stato italiano e la recente festività del 17 marzo mi hanno spinto a scrivere - quasi di getto - queste brevissime note a commento di uno dei libri di maggior successo dell'anno: "Terroni" di Pino Aprile.

 

Premetto che, rispetto alla materia trattata nel libro, non sono del tutto imparziale: sia perché, per vicende biografiche inerenti alla formazione militare mia e dei miei avi, reputo l'unità d'Italia una grande epopea storica ed un valore non negoziabile; sia perché, pur essendo nato, cresciuto e largamente vissuto a Roma, proprio le vicende biografiche mie e dei miei avi - nonché parenti - mi hanno portato a conoscere ed incontrare persone di più parti d'Italia, dal Tarvisio a Marsala, vedendo in esse la parte multiforme di uno stesso Popolo.

Fatta questa premessa, che vuol essere una dichiarazione di onestà nei confronti del lettore, faccio un rapido cenno al libro: la tesi di Aprile, intellettuale d'origini pugliesi, è quella di gran parte della letteratura meridionalistica degli ultimi anni, che vedrebbe nel Meridione d'Italia il polo più avanzato e ricco del Paese sino all'annessione da parte del Regno di Sardegna per opera di Garibaldi e Vittorio Emanuele II; dopo quella data, gli equilibri economici si sarebbero spostati a tutto vantaggio del Regno suddetto, che avrebbe arricchito le proprie casse - secondo il noto principio dei vasi comunicanti - a detrimento di quelle del Regno delle Due Sicilie, facendo al contempo mancare al Sud tutti gli investimenti strategici di medio e lungo periodo che avrebbero potuto incentivare un passaggio dal latifondo alla piccola proprietà contadina ed indi all'industria avanzata, come avvenuto nel Nord.

L'aspetto su cui maggiormente si sofferma l'Aprile storico è dato dagli stermini di massa che i pretesi liberatori garibaldini avrebbero praticato nei confronti delle popolazioni del sud Italia, a conferma del fatto che il processo di unificazione sarebbe stato dettato, più che dalla tensione ideale dei Mille, da esigenze militari, e con mezzi militari deteriori. Nelle pagine più vivide del libro io stesso - memore delle letture di Verga - non ho potuto che sussultare, cogliendo nell'ordito degli eventi narrati da Aprile l'eco di vicende passate e recenti, quali ad esempio i massacri della ex Jugoslavia ad opera delle truppe Serbe, o, ancora, i massacri dell'esercito slavo a danno della minoranza di lingua italiana della Venezia-Giulia e dell'Istria nel corso della seconda guerra mondiale.

L'unità d'Italia, nella sintesi di Aprile, avrebbe doppiamente tradito il sud: dapprima uccidendo e depredando; successivamente facendo mancare il sostegno economico ad una parte indebolita dal percorso di annessione varato dai Savoia; infine, anche a causa dei flussi migratori successivi agli anni '50, togliendo al Sud le migliori energie, confluite nelle grandi imprese del Nord e della grande borghesia imprenditoriale del triangolo Genova-Torino-Milano, la cui base fu fornita da manodopera meridionale a basso costo ("terroni" appunto, o "gabibbi-cacirri", per dirla alla genovese).

Non si tratta, in ogni caso ed al di là delle facili apparenze, di un libro-antiunitario: al contrario, esso suona come una sorta di bilanciamento alle mire secessionistiche della parte avanzata del Paese e come una critica larvata alle riforme federalistiche in atto, che tradirebbero lo spirito di un popolo se non fossero comunque ispirate dall'esigenza di bilanciare gli interessi in gioco e solidarizzare con aree meno fortunate del Paese.

Il tutto è molto stimolante, anche se, per certi versi, esso suona come un "già sentito" ai lettori più smaliziati: piuttosto, c'è da chiedersi, a mo' di riflessione conclusiva, se la visione di Aprile corrisponda effettivamente al vero, o se le cose non siano più complesse di quanto non sembri di primo acchito.

Girando per Roma con alcuni ex colleghi ed amici ancora impegnati in servizio attivo, mi chiedevo, il 17 marzo, per quali motivi l'Italia non si senta più unita come in passato, e quali potrebbero essere i rimedi utili per migliorare le cose.

Qui la mia divergenza rispetto alla posizione di Aprile e di tanta meridionalistica: si manca forse di osservare come "gli italiani", come popolo, nacquero a partire dalla prima campagna di Libia del 1911 e, soprattutto, nel corso della prima guerra mondiale, quando popoli diversi affratellati assieme difesero eroicamente il fronte nord-orientale della penisola dall'invasione straniera: credo che nulla simboleggi meglio quest'integrazione delle vicende di Emilio Lussu nelle battaglie sull'altipiano di Asiago, e più in generale l'eroismo di tutti i militari meridionali (fra cui il mio bisnonno, di cui conservo la foto in divisa) a presidio del Piave e del Montello, vera e propria linea di demarcazione rispetto all'area austroungarica e, più ampiamente, della barbarie dell'est Europa.

Nel successivo ventennio, i reduci della Grande Guerra diedero prova di sé e di Unità di un Unico Popolo, in un'epoca - come quella fascista - di cui possono darsi certamente giudizi negativi, ma che contribuì come poche altre ad unire gli italiani, abbattendo non solo le barriere geografiche (si pensi al recupero dell'Alto Adige o dell'agro pontino e delle gesta cantate nell'ultimo libro di Pennacchi) ma anche quelle economiche e spirituali, anche per l'influenza intellettuale di idealisti come Giovanni Gentile e dell'Istituto enciclopedico italiano.

La rottura di questa koinè e di un comune destino andrebbe datata, probabilmente, agli anni successivi alla seconda guerra mondiale, per effetto di una divisione indotta dall'aderenza di una parte della popolazione agli ideali del Patto di Varsavia, con annessa una sorta di "doppia fedeltà" all'ideale comunista ed al Partito (prima ancora che alla democrazia) che, in schemi curiosamente analoghi ma non così diversi, si possono trovare anche in formazioni politiche come la Lega Nord, permutando comunismo con federalismo, e Bossi con Togliatti.  

Non è forse un caso se molti dei dirigenti della Lega ebbero trascorsi giovanili nella sinistra e se la maggior parte dell'elettorato leghista, nel Nord, è composto da operai e piccoli padroncini con partita IVA, o ancora da immigrati o figli e nipoti di immigrati, introiettando gli schemi mentali del vetero-comunismo verso diversi obiettivi, come la secessione o l'indipendenza di una parte del Paese rispetto all'altra. Lo schema non è dunque etnico - come appunto vorrebbe il libro di Aprile - ma essenzialmente ideologico.

Ovvio allora che i rimedi al problema vadano ricercati sul piano prettamente ideologico-politico, cercando politiche atte a ricreare lo stesso clima e fermento intellettuale che, un secolo fa, portò gli italiani ad essere un solo popolo, sotto una stessa bandiera.

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