La leggerezza e la sicurezza, l’ostentazione placida e divertita dei propri mezzi tecnici ed artistici, una platea che pende dalle voce emessa dalla sottile fessura fra le corde vocali del cantante chitarrista. Un po’ come Maradona che, giunto all’apice, va dal suo pubblico per divertirsi e far vedere colpi da maestro.
Questo è il Pino Daniele che si presenta a Cava de’ Tirreni (Sa), letteralmente a cavallo delle sue certezze, pronto a dirigere l’orchestra del pubblico con un semplice cenno delle sopracciglia. E che pubblico, il suo. Dalle tracce di questo lavoro filtra una tensione esplosiva (in ogni senso, dato che ogni tanto si sente il botto di qualche mortaretto), un insieme di tantissime voci sempre sull’orlo dell’ovazione e del tributo ai tre che sul palco mettono in scena il repertorio del cantautore. Siamo a maggio del 1993 e il bluesman mediterraneo ha appena pubblicato il suo ennesimo album Che Dio ti benedica – secondo chi scrive, vero primo passo nel vuoto, nonostante il successo commerciale -.
Perché provare questo live? Si tratta di una performance serale davvero molto sentita e partecipata (peraltro, uscita ufficiale) . Mi permetterei di dire, l’ultimo omaggio di Daniele ad un certo tipo di pubblico . E forse anche il benvenuto alle orde di nuovi appassionati, devoti ai suoi testi più semplici e alle sue sonorità meno caratterizzate da atmosfera prettamente partenopea. A differenza del più pittoresco e caratteristico Live Sciò!, questo album intreccia una grande delicatezza vocale e, soprattutto, il suono di pochi morbidi strumenti: la serata è fondamentalmente acustica e semi-acustica, e viene accarezzata da elettricità soave e percussioni che sembrano mosse dalla brezza marina, a volte più insistente, a volte appena percettibile . Pino è quello coi capelloni cotonati iperbrizzolati e la barba scolpita, un po’ su di peso, con gli occhi scavati che parlano di tanti anni dedicati ad altro.
Da A me me piace o’ blues a O’ scarafone , l’album s’inerpica lungo la carriera già molto lunga all’epoca di Daniele, provando a ritrattare una musica già di per sé molto originale, mettendola in pigiama e pantofole e facendola stendere su un letto. È musica chilling , che mi fa pensare a quando stai in cima al Vesuvio e domini il golfo, e tutto il casino di giù scompare. Sono i testi l’unico vero collante tra il terreno e i piedi dell’ascoltatore domestico : se li conosci li segui, altrimenti te ne puoi partire con la musica e finire chissà dove. Sul palco tre amici che suonano con grande confidenza, “messicaneggiando” e sincopando ritmi noti, che in questo stato un po’ spiazzano. Non ci sono la solita energia e la solita grinta: queste vengono sostituite da altre forme di connettività con il pubblico che gradisce e percepisce come validissima questa nuova forma di Daniele.
Lui, comodamente seduto lassù, con una prateria di teste di fronte, lesina numerosi pezzi di chitarra di grandissima classe, dimostrando di poter tenere tranquillamente il confronto con un Clapton o altri grandi interpreti della chitarra blues per pubblici di grossa portata. Non vorrei dire un’eresia affermando che su quel palco hanno suonato divertendosi come in una session di prova in studio, molto ispirata e rilassata . Da provare, insomma.
Non il massimo anche per via della tracklist che, onestamente, non mi fa morire. Ma nel complesso molto buono e significativo di una transizione che volgeva al suo definitivo completamento per un artista che mi ha sempre accompagnato sulla decapottabile anni ’80 di un amico, nelle notti insonni tra le tortuose vie della costiera amalfitana. Credo che solo chi conosce certi posti e ama il blues, in particolare questo blues, possa capire quanto è bello vivere. Anche incazzati.
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