Mi approccio all’ascolto del disco a fine agosto, proprio il periodo a cui PJ Harvey fa più volte riferimento sia nei testi che nei suoni di questo attesissimo I Inside the Old Year Dying. I primi brani sembrano confermare le caratteristiche che già apparivano nei singoli, ovvero una grande ricerca nei suoni e negli arrangiamenti e l’utilizzo di un inglese aulico, quasi epico; la partenza tuttavia appare in salita, con brani che non convincono appieno sul fronte compositivo, lasciando quasi sospettare che le sopracitate scelte stilistiche servano a nascondere – seppure con grande gusto e intelligenza – una certa povertà compositiva e di idee: mi riferisco per esempio ad Autumn Term, che fatica ad ingranare, e alla rapsodica ma poco convincente Seem an I.

Ed ecco che arrivati a metà album, quando gli entusiasmi e le aspettative sull’album sembrano definitivamente affievolirsi, arriva la title-track I Inside the Old Year Dying: breve, incisiva ed essenziale, capace di mettere sotto una luce diversa tutti i barocchismi che zavorrano i brani precedenti e che qui invece incorniciano la bellezza del brano. Il resto dell’album è in crescendo: tutti quelli orpelli e quel lessico strambo assumono via via sempre più senso e definizione; anche i brani più articolati come All Souls girano meravigliosamente, le idee compositive sono più a fuoco e gli arrangiamenti sofisticati contribuiscono a supportarle ulteriormente. Arrivano anche i due singoli che già conoscevamo e che avevano creato un certo hype sul resto del disco, ovvero A Child’ s Question, August e I Inside the Old I Dying, che anche inseriti nel contesto più ampio dell’album non perdono un grammo della loro bellezza e brillantezza.

Nel complesso, il giudizio sull’album non può che essere positivo su tutti i fronti (compositivo, strumentale e letterario); tuttavia stupisce il forte squilibrio tra la prima parte del disco, stanca e un po’ fiacca, e la seconda estremamente valida, benché probabilmente la tracklist nel progetto della Harvey sia più vincolata da necessità narrative e dai rimandi ipertestuali tra i brani più che dal bilanciamento effettivo degli stessi.

In definitiva, un disco senza grandi vette ma che ha la sua forza nell’insieme, proprio come i più riusciti concept-album, e quindi capace di creare un mondo musicale profondo e dettagliato che assume valore nel suo essere “opera”, e non una banale raccolta di brani; e forse è proprio di “opere” e di mondi che oggi il mondo della musica ha bisogno.

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