Perdersi, per poi ritrovarsi e cambiare le carte in tavola.
Questo è quello che è successo ai Placebo, una band sempre in balìa del proprio percorso tumultuoso, che sette anni fa ha registrato l’ennesima scossa sismica con l’abbandono del terzo batterista in ordine di tempo, Steve Forrest. Un disco non completamente a fuoco ed accolto tiepidamente (“Loud Like Love”, uscito ormai nove anni fa) ed un infinito tour a supporto della raccolta “A Place For Us To Dream” sembravano aver messo una pietra tombale su di un ipotetico futuro dell’ormai duo britannico.
L’eseguire ripetutamente, e per mesi, le solite hit tratte dall’ormai ragguardevole discografia della band aveva portato Molko e Olsdal a non riconoscere più una precisa identità nel progetto. Ecco così le dichiarazioni su di un nuovo disco che sarebbe stato “un autentico suicidio commerciale”, e poi un lungo silenzio. Fino a che i due si sono ritrovati ed hanno trovato nuovi stimoli attraverso una semplice idea: perché non destrutturare il processo di composizione, e ricomporlo all’inverso?
Ecco così che il duo riparte da un titolo, “Never Let Me Go”, e una copertina, oltre che da una manciata di titoli: Molko ne propone uno, Olsdal inizia a lavorarci e così nascono i nuovi brani, parte dei quali vengono addirittura riconsiderati e rilavorati “approfittando” della pandemia. Il risultato è una vera e propria rinascita artistica per i Placebo, mai così a fuoco dai tempi di Meds e fieri genitori di un album che è un vero e proprio nuovo inizio.
A livello di sonorità, grandi novità non ce ne sono: i numi tutelari sono sempre i soliti (Bowie, Pumpkins, Nirvana, Pixies, Depeche Mode). E’ evidente casomai un nuovo e costante utilizzo del synth, ben presente lungo la quasi totalità dei pezzi proposti (tredici, co-prodotti dalla band assieme ad Adam Noble) e strutturalmente fondamentale nel singolone “Beautiful James”, il pezzo sicuramente più commerciale del disco. Ma è casomai l’apertura con “Forever Chemicals” a settare le coordinate, con un afflato a metà tra Nine Inch Nails e Depeche Mode preannunciato da una sinistra arpa distorta posta in apertura.
A tratti torna persino un graffio assente da tanto tempo nella performance di Molko, più o meno da alcuni episodi di Meds (“Hugz”, “Twin Demons” - che non avrebbe sfigurato in “Black Market Music” -, la nirvaniana “Chemtrails”), e si ritorna persino alle origini con il terzo singolo “Try Better Next Time” (così appiccicosa da riportarci al ‘98 di quella pietra miliare assoluta che fu “Without You I’m Nothing”). Laddove invece avanza il nuovo, è un piacere sentire una poppeggiante “The Prodigal”, chiaramente ispirata ad “Eleanor Rigby”, ed una “Sad White Reggae” che è figlia legittima della vecchia “Taste In Men”, solo in chiave più depechiana.
Gli altri due singoli “Happy Birthday In The Sky” e “Surrounded By Spies” recuperano il lato più cupo della scrittura di Molko, la prima in forma più canonicamente alt rock, la seconda con un ritmo frenetico e più “sperimentale”, cupezza poi recuperata in un trittico finale più lento e riflessivo che sublima un album bellissimo, e di diritto tra i dischi rock più belli di questo primo quarto di 2022.
Brano migliore: Happy Birthday In The Sky
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