Mi ero promesso di non piangere più. Io le promesse verso me stesso non le mantengo. Ho pianto. Ho perso l’occasione della vita. O, meglio, una vita possibile, che si è rivelata impossibile. Ho archiviato un amore sotto forma di costume mai lavato e conservato in una busta di plastica trasparente che custodisce ancora i granelli di sabbia bianca e ciò che resta delle scie di quell’odore di spiaggia e mare lontano. Volevo che l’aereo su cui dovevo viaggiare per tantissime ore, decollasse in verticale e mi portasse in orbita a sorvolare quella situazione che si era fatta così reale da procurarmi il vomito. In Europa ho sentito subito il gelo del sole. Un senso di rifiuto da ragazzino che mi dava anche un minimo di senso di forza per camminare. Ma non mi andava. Ho passato ore seduto in aeroporto appena tornato. Volevo volare e l’ho fatto in maniera del tutto artificiale. Poi ho atteso che finisse. Ed è finito. Mi sono risvegliato lavoratore ed europeo senza neanche aver capito cosa avessi fatto nel mio periodo di inerzia, tabagismo acuto e licantropia notturna. Mi trasformavo in una bestia e mi chiudevo nella mia gabbia meneghina costituita da quattro mura con letto matrimoniale attiguo ad angolo cottura. E all’improvviso ero di nuovo nel sistema. Un ottimo reinserimento devo dire. Per fortuna non m’è mancato niente: lavoro buono, nuove conoscenze, viaggetti. Sticazzi. Mi mancava tutto. Perché se mi levo l’amore, il rocker anni 80 che è in me s’ammazza. Peggio.

Da rocker anni 80 l’amore me l’avevano strappato le contingenze e le latenze. Ho tagliato i capelli e non li ho fatti più crescere. Anzi, quando ci ho provato iniziavo a somigliare al felice che ero e per non ricordare mi sono dovuto ricostruire nuovo e diverso allo specchio. Anche le apparenze fanno la loro parte nel gioco della coppia. Ovvero io e me stesso. Allora io coi capelli corti non ferisco il me stesso che aveva i capelli lunghi. In quelle ore di abbandono totale alla equa condivisione di un sentimento puro. Mi tornava spesso in mente anche un passo falso mosso appena ho rimesso piede sul solo del vecchio continente nel mio scalo a Parigi. Levare le cuffie dell’iPod mi ha fatto anche sentire il sottozero sonoro della ferraglia delle nostre parti. Era come aver staccato la spina con l’unico filo che mi legava ancora alla precedente notte. La musica più bella che credevo di aver mai ascoltato. Me l’aveva proposta lei. Io ero ancora più conquistato. L’ultima cosa che ho saputo direttamente da lei era che mi aveva lasciato quell’eredità per pensare a quanto fosse stato tutto così cosmico ed, in un certo senso, oggettivo. Per cancellare la soggettività. Come dire, lo abbiamo saputo io e te. Ora lo sanno gli astri. E se ti torna in mente, affidati alla cosmicità di questo disco.

C’è un mago dietro questa meravigliosa e stupefacente release del 1992. Si chiama Jay Graydon, classe ’49, compositore, cantante, chitarrista, produttore discografico ed arrangiatore di Burbank, USA. Tra la fine dei ’60 e i ’70 Jay ha lavorato come turnista per Barbara Straisand, Diana Ross, Jackson Five, Cheap Trick, Ray Charles, Cher, Joe Cocker, Marvin Gae, tra gli altri. Altro mostro dalla carriera facilmente ricostruibile su web è Cliff Magnes, sicuramente l’altra anima di questa superband che porta l’AOR della west coast nello spazio e lì lo lascia come magistrale forma di musica realizzata dal genere umano.

Ecco, c’è chi fa musica per istinto, per buttarci dentro l’anima e per trasmettere al mondo il proprio essere. E c’è anche chi fa musica da studio ingegneristico, perché la conosce tutta, perché ha una mente vivace e creativa, pronta ad assemblare e sperimentare. I Planet 3 appartengono al secondo gruppo pur riuscendo a metterci dentro tanta passione.

Il disco in questione rappresenta una raffinatissima forma di hi-tech AOR che risulta soave all’ascolto, totalizzante, in un certo senso oggettiva. I paragoni che ho trovato su altri siti con altre band ci stanno tutti (i Def Leppard incontrano i Chicago), ma pochi hanno notato che è come se i Planet 3 avessero voluto esprimere il potenziale di tutto un genere in valore assoluto nel senso matematico del termine. Operazione riuscita alla perfezione. Ci sono molti suoni elettronici che nel complesso risultano eterei, vaporosi e limpidi più di quanto (difficile a credersi) avrebbe potuto produrre mano umana. Voilà. Mentre scrivo mi viene in mente che il dualismo in questo album è tra mano umana e mente umana, ed è la seconda vince a mani basse. Music From The Planet è un album tutto cervello. Il che implica studio e calcoli ma anche emozioni. È come se la materia grigia fosse stata impiegata al massimo del suo possibile rendimento per generare illusorie ambientazioni senza alcun difetto in cui far accomodare gli uomini. Una specie di codici di matrix rivestiti della migliore realtà possibile.

Io oggi mi ci accomodo quando ho l’implacabile bramosia di piangere per quel motivo lì. Ci penso spesso, sebbene oggi abbia una vita. Parallelamente a volte mi chiedo dove sarei ora se tutto fosse andato come doveva andare. Ma è un pensiero così. Mi stronca qualche giorno ma mi fa anche compagnia. Come questo album che, più che segnare una vicenda umana, ha segnato un’ epoca senza che molti lo sapessero.

P.S. – Su web questo disco è ritenuto da gente normale (e non da giornalisti) come capolavoro assoluto. Il 99% dei giudizi del pubblico che ho trovato (tantissimi) danno il massimo dei voti possibili. Ascoltatelo. Sentirete quello che provato io.

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