Il galateo delle recensioni spesso ci obbliga ad attenerci alla tecnica di un disco, alla sua composizione puramente discografica (numeri e titoli delle tracce, genere, strumenti), senza soffermarci mai troppo sulle emozioni che un'opera può scatenare. Parlavo di questo nel mio breve e confortante delirio causato da quell'estasi misconosciuta di una Bjork in piena leggerezza dal titolo "Prayer Of The Heart", selvaggiamente relegata ai De-Casi per la sua componente forse troppo "outsider". Ma com'è possibile essere freddi, tecnici o accademici di fronte a certe opere che stuprano l'anima e rubano il cuore? Ci sono opere musicali in cui il singolo suono non ha più senso, quanto la composizione dei battiti, della voce che non è voce, ma è aria. Dell'anima filtrata attraverso un ensemble di strumenti. Nulla ha più senso, se non la forza. Ed è il miracolo della musica, quello di suonare perfettamente armonica e di creare, volteggiando nell'aria, eden misteriosi e impalpabili.

E poi spuntano dischi che non ti fanno nemmeno immaginare di essere tali. Sono veri e propri mondi sonori, tratteggiati ad hoc per essere divinità ultraterrene. E così spunta Planningtorock, una donna che riesce ad essere all'avanguardia anche quando in ambito d'avanguardia sembra già tutto sperimentato. Se ne esce tra i ghiacci crepuscolari di un'opera irridescente come il "Tomorrow In A Year" di Knife-memoria e, quando non si mette a stuprare pezzi altrui in puri, splendidi tramonti viscerali, applica la sua composizione intrinseca di eros/thanathos in pezzi -detto proprio spudoratamente- strepitosi. 

Elettronica straniante, piccoli vortici di luci, tagli d'ombre, archi come minaccia, voce spesso filtrata da disperazione ed euforia. Ed eccola lì, con un album d'esordio come "Have It All" (seguito da un altrettanto splendido "W", di quest'anno) e con un pezzo, scelto come singolo, che riesce a trascinarti con forza e violenza nel più terrorizzante dei limbi: è "Changes". Canzone che rientra perfettamente tra le più geniali e spiazzanti del decennio appena trascorso. Echi di Kate Bush, ritmo cadenzato da archi onnipresenti, gorghi di pure e deliranti fughe verso l'abisso. Giù. Affonda. Riemerge. Affonda. Disperatamente. Alla ricerca di una luce sempre più sfuocata e lontana. Sono 4 minuti scarsi, ma racchiudono l'anima di un intero album. 

E del resto? Parlarne in termini scientifici e neorealisti sarebbe l'inutilità più totale. Un lago ghiacciato in musica, un'esplosione improvvisa di magma incandescente, una valanga di neve dalle conseguenze fatali.

Sì, l'incedere da blues del ventunesimo secolo di una aggressiva "I Wanna Bite Ya" o i puri, esplosivi attimi di coro tra il celestiale e l'infernale di un pezzo rock sperimentale come la meravigliosa "Local Foreigner" non necessitano di presentazione. Ma non la necessitano neanche la title-track, la pura e cruda canzone anti-dance, che paradossalmente riesce a far ballare o la straordinaria "Think That Thought", che di "Changes" riprende la struttura archi-voce-battiti, per diventare una rosa rosso sangue dal sapore jazzy.

No. Parlarne anche ora è stato, francamente, inutile. Parlandone così sembro pure di parte. Ma è impossibile non amare dischi che, come questo, fanno viaggiare con il pilota automatico. A toccare i fiordi norvegesi o il monte Fuji, passando per i labirinti della propria, inesorabile, anima.

Sì, ascoltare certi dischi vuol dire, un po', anche riscoprirsi.

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