Di tanti titoli strani che si possono mettere ad un disco, uno dei più bizzarri che conosca è "Chandelier". È una parola francese che letteralmente vuol dire "candelabro", ma che nel dizionario inglese ha assunto il significato di "lampadario artistico", di quelli di Murano o di cristallo, enormi, con scopo quasi più monumentale che funzionale. Ed infatti sulla copertina di "Chandelier", il settimo album dei giapponesi Plastic Tree, campeggia un grande lampadario di vetro rossastro, color caramello.
Il disco è stato pubblicato nel 2006 ed è da allora che mi chiedo che significato possa avere un titolo del genere; mi sono dato diverse spiegazioni, e le più convincenti che ho trovato sono tre: o il gruppo ritiene questo album bellissimo e lo considera il più luminoso della propria carriera (come se dovesse porsi come un punto di riferimento anche per il futuro), oppure il disco viene inteso come una raccolta di brani distinti, ma uniti a formare un unico elemento (come un lampadario, appunto, regge le candele), o ancora semplicemente ai Plastic Tree piaceva il suono della parola (che in giapponese viene pronunciata più o meno come "ciàn-de-rià"). Probabilmente è giusta la terza che ho detto, ed è molto suggestiva la seconda, ma da fan non posso fare a meno di fantasticare e di considerare come corretta la prima ipotesi.
"Chandelier" è davvero un album luminoso, brillante: non nel senso che sprizza felicità, ma nel senso che ogni singolo brano possiede una qualità enorme che lo rende, appunto, pieno di luce. Il biennio 2005-2006 è un momento d'oro per i Plastic Tree: vendite ottime, concerti tutti sold-out, apparizioni televisive e radiofoniche continue, apprezzamenti dalla critica ed addirittura la pubblicazione di un EP in occidente. Dietro a questo grande successo c'è la raggiunta capacità di scrivere dei brani rock formalmente perfetti: con i cinque singoli Sanbika, Namae No Nai Hana, Ghost, Kuuchuu Buranko e Namida Drop i Plastic Tree raggiungono il perfezionamento della forma-canzone fino a raggiungere uno standard altissimo in cui ogni composizione è sempre uguale e sempre diversa. Con "Chandelier" la band decide di affrontare un esperimento scientifico e sfidare sé stessa ponendosi un limite compositivo ben preciso in cui ogni brano è così strutturato: micro-introduzione di pochissimi secondi diversa dal resto della canzone, due strofe, bridge, ritornello, una strofe, bridge, ritornello, variazione, ritornello, conclusione (rigorosamente senza ad libitum sfumando). Su questo schema post-beatlesiano, i Plastic Tree costruiscono un esercizio di stile incredibilmente riuscito. I tredici brani sono tutti davvero molto validi, e colpisce in maniera lampante come la band di Ryutaro Arimura e Tadashi Hasegawa sia riuscita a coniugare in tipologie sempre diverse lo schema fisso che si sono posti: dall'hard rock di "Ghost" alla new wave di "Namae No Nai Hana", dalla ballad "Last Waltz" al post-punk di "Hate Red", "Dip It", dal pop di "37°C" all'elettronica di "puppet talk". Testi introspettivi, ma non tristi, e melodie davvero dolci e bellissime unite ad arrangiamenti eccezionali come solo l'affiatamento di chi si conosce da molti anni sa produrre. "Chandelier" non è l'abum più bello dei Plastic Tree, ma mostra in maniera chiara il loro talento: ogni limite genera una sfida, ogni sfida si può vincere o perdere, ed in questo caso è vinta alla grande.
Un'ultima piccola nota sul sopraccitato EP europeo: si intitola "What is "Plastic Tree""? e contiene i quattro singoli "Sanbika", "Namae No Nai Hana", "Ghost" e "Kuuchuu Buranko" con le loro rispettive quattro b-sides; una di queste, "Paranoia", è probabilmente la canzone pop perfetta, nata da un ponderato esperimento come lo fu "Friday I'm in Love" dei Cure ed altrettanto riuscita.
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