Tic, tac, tic, tac... il metronomo segna 60 BPM, e dopo pochi secondi inizia Utsusemi, parola ambigua come tante parole in giapponese, che può significare molte cose e molte ancora di più ne può significare perché è scritta con le sillabe che si usano per le parole straniere. "Utsusemi"... forse si riferisce alle cicale, così presenti nelle calde giornate d'estate di Tokyo? O al mondo reale, rappresentato in molte sue sfaccettature? O persino alla tenacità dei comportamenti? O ancora a qualcosa d'altro?

Il decimo album dei Plastic Tree porta con sé almeno due misteri: se il primo è quello del titolo, il secondo è più inquietante, legato a certe misteriose pratiche magiche ed esoteriche come se ne possono leggere solo sui bestiari medioevali. Con gli anni, succede, tante cose sbiadiscono e perdono di forza, e così è purtroppo successo per una band simbolo degli anni '80, i Cure, per una che ha caratterizzato i '90, gli Smashing Pumpkins, e per una che ha testimoniato il cambio di rotta fra i due decenni, i Nirvana. Se per quest'ultimi l'attività è finita per motivi insuperabili, le altre due band invece si sono un po' spente forse per via degli anni, forse per i soldi, forse per il mercato della musica, forse non lo so... ma di certo non stanno più segnando questi anni 2000 con i profondi solchi che invece hanno scavato nei tempi scorsi. Ed io ho scoperto il perché: sono stati i Plastic Tree. Sono stati questi quattro giapponesi, con chissà quale formula segreta, a rubare loro il talento, la tecnica, i temi, l'immagine e persino la capacità di tradurre in musica con prontezza il momento che si sta vivendo. Mescolando in un enorme calderone tutti i migliori album di Cure, Nirvana e Smashing Pumpkins, ed aggiungendovi una dose enorme di romanticismo ed una poesia effimera e leggera tipicamente giapponese, i Plastic Tree hanno ottenuto l'elisir della musica perfetta.

Utsusemi forse non è l'album più bello della band di Chiba, ma è senza ombra di dubbio il loro lavoro più maturo: dopo Nega To Posi del 2007, in cui i quattro omaggiavano i loro maestri con canzoni stracolme di riferimenti colti, Utsusemi si dimostra essere l'esercizio con cui la band è riuscita a superare i propri modelli e raggiungere i propri maestri. È il passaggio dalla teoria alla pratica, dal dire al fare, dal «vorrei essere bravo come Robert Smith» all'essere bravo come Robert Smith, dallo studiare dei riferimenti al creare un riferimento. A canzoni eccezionali come Replay ed Alone Again, Wonderful World (i due singoli estratti dall'album, che testimoniano con forza che la band merita l'attenzione internazionale) si aggiungono abbacinanti prove di bravura come Tetris, Q o la straordinaria Closer... ma, davvero, potrei citare ogni singolo brano e non sbaglierei mai, perché -incredibilmente- non c'è un solo brano sbagliato, non un anello debole. Prendiamo Fiction, il mio brano preferito: cita i Cure già dal nome, ha strofe mesta e ritornello esplosivo da brava canzone grunge ed un arrangiamento che ricorda palesemente Billy Corgan, eppure la melodia così infinitamente gentile, il testo davvero commovente e la voce dolce di Ryutaro Arimura riescono ad elevare questa canzone da buona copia d'artista ad opera perfettamente autonoma, peraltro di qualità eccelsa.

I Plastic Tree non hanno mai fatto mistero di amare le tre band anglofone citate, e proprio ora i cui i loro miti tramontano loro sorgono: è un processo iniziato anni fa ed ora arrivato a piena maturazione; sembra appunto che ci sia stata una sorta di incredibile trasferimento di talento, sennò non si spiega come mai se da una parte si vive quasi di rendita dall'altra invece si va migliorando sempre più. Mah, misteri alchemici.

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