L'Eutifrone è uno dei dialoghi platonici più godibili, vivaci, immediati e piacevoli, e insieme una, seppur elusiva e quasi scherzosa, profonda disamina di una tematica chiave in qualunque contesto religioso: cosa è santo?
Socrate, citato in giudizio da Meleto con l'accusa di essere un corruttore di giovani, si imbatte nei pressi del tribunale in Eutifrone, borioso individuo auto-definitosi "massimo sapiente in questioni religiose". Costui si sta recando a sua volta in tribunale per denunciare il padre per aver lasciato morire un servo colpevole di un altro omicidio. Socrate, indossata la abituale maschera di umiltà intellettuale, chiede al pretenzioso Eutifrone di istruirlo sulla corretta dottrina religiosa, in particolare su cosa sia da considerarsi santo e cosa no. Il ragionamento, invero scherzoso e ironico fin dall'inizio, è che se Eutifrone osa accusare di omicidio suo padre, evidentemente non ritenendo questo un gesto empio, sarà senza dubbio in grado di educare Socrate a discernere bene e male, in modo che tutte le accuse rivoltegli da Meleto cadranno istantaneamente.
Eutifrone, in accordo con il carattere arrogante e presuntuoso attribuitogli da Platone capo-coro di questo dramma scherzoso, accetta la sfida, e istantaneamente cade preda dell'arte oratoria di Socrate, della sua "maieutica" che, a dire il vero, in questa occasione punta più a smascherare le contraddizioni dell'interlocutore che a rivelare la verità, forse proprio a causa della particolare sfuggevolezza dell'argomento.
Implacabile e sardonico come mai, Socrate incalza Eutifrone smascherandone via via le contraddizioni: è santo ciò che piace a un Dio? Ma allora, ciò che piace a un Dio e dispiace a un altro, è santo o no? È santo ciò che piace a tutti gli Dei, ribatte sicuro Eutifrone. Ma ecco la domanda implacabile: si definisce qualcosa santo perché è caro agli Dei, o è caro agli Dei perché santo? La dicotomia appare insolubile, e tale sarà appunto per Eutifrone, propugnatore di una religione tradizionale, passatista e per ciò fallace. Già il nostro Socrate, innovatore del pensiero, si pone un passo avanti, sostituendo nei fatti ai tanti dei antropomorfi del mito, già demoliti da Senofane, il concetto stesso di divinità, legato al logos stesso e all'etica.
Volendo proseguire noi questo cammino, possiamo supporre, con un salto notevole, di passare direttamente da Socrate a... Agostino. Superate con la sola forza della concezione monoteistica tutte le diatribe sulla pluralità dell'interpretazione del volere divino (Dio è uno, e il suo volere è legge), Agostino sarebbe stato in grado di fornire, ovviamente dal suo punto di vista cristiano, una risposta soddisfacente a Eutifrone. Ecco una possibile risposta nelle parole di Agostino stesso, tratte dalla polemica con i semi-pelagiani: "Li scelse dunque - egli dice - prima che esistessero, predestinando ad essere figli quelli che prevedeva che sarebbero stati santi e immacolati; allora non fu lui a farli tali, né previde che li avrebbe fatti tali, ma che essi lo sarebbero stati". Dunque, Dio, nell'atto della creazione, pone in potenza tutto ciò che dopo sarà realizzato per sua onnipotente volontà. I santi, dunque, non sono tali perché Dio li rende tali, ma perché Dio ha fatto in modo che potessero esserlo, anzi diventarlo.
La grazia conduce alla fede, la fede guida l'uomo pio nel suo cammino di vita rettamente e senza inciampi nel peccato; in questo modo, il predestinato dalla grazia compirà azioni sante, e a sua volta sarà santo. Tale dottrina è un elegante crasi delle due opzioni evidenziate da Socrate: il santo è sia "santo perché caro agli dei (al Dio nel caso)" che "caro agli dei (al Dio) perché santo". Sembra più corretto, più "divino" ad Agostino che Dio non abbia donato quasi casualmente la santità, ma che abbia disposto semplicemente delle condizioni, ovvero la grazia, grazie alle quali un uomo potrà meritarsi la santità, ed esserne davvero degno.
Affascinante l'excursus nella patristica, ma torniamo all'aeropago dove il malcapitato Eutifrone è in balia di un Socrate mai così "tafano". L'Eutifrone è un dialogo aporetico, in quanto non giunge a una vera conclusione, a una risposta, ma si limita a vagliare tutte gli argomenti disponibili, confuntandoli, per poi tornare al punto di partenza, seguendo una magistrale rinkcomposition. Dopo un estenuante botta e risposta, Eutifrone si ritrova a sostenere tesi già smontate in partenza, e preferisce battere in ritirata, tornando ai suoi affari, anch'essi delegittimati. Socrate si lamenta per l'occasione di apprendimento mancato, ma in realtà se la ride sotto i baffi, degno emulo di quel suo antenato, Dedalo, che faceva muovere le statue; Socrate, similmente, fa muovere i pensieri...degli altri. Si chiude così, senza una risposta e assai bruscamente questo dialogo, che poco o nulla rivela delle teorie del Platone filosofo. Ma prendiamolo così come viene, questo Platone raffinato e sagace commediografo, capace di costruire su un interrogativo onnipresente nella storia del pensiero, un raffinato divertissement.
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