I Poco a mio avviso sono stati i numeri due del country rock, dopo le Aquile. Quest'album del 1974, loro ottavo in cinque anni(!) di carriera fino a quel momento, li coglie nella formazione "classica", la migliore ad onta del fatto di aver perso via via per strada la "nobiltà" country rock che aveva fondato la banda. Mi riferisco a Randy Meisner (fuori dopo il primo album, per ritrovarsi un paio d'anni dopo co-fondatore degli Eagles), Jim Messina (ex-Buffalo Springfield, andatosene dopo il terzo album con i Poco ad arricchirsi pure lui in duo con Kenny Loggins), Ritchie Furay (anch'esso ex-Buffalo Springfield, andatosene dopo il sesto album coi Poco a non arricchirsi affatto, in un velleitario supergruppo insieme a John David Souther e l'ex-Byrds Chris Hilmann).
Nel quartetto titolare di "Cantamos" suonano i superstiti membri fondatori Rusty Young (virtuoso di steel guitar, banjo, dobro, mandolino e insomma tutto l'armamentario del chitarrista country... californiano ovviamente con nessuna parentela con il canadese Neil) e George Grantham (batterista ed addetto alle parti in falsetto nei cori). Quelli saliti a bordo in corsa sono il bassista e cantante californiano Tim Schmit (dentro sin dal secondo album, al posto di Meisner... e gli farà il medesimo scherzetto nel 1977 con gli Eagles!) ed infine Paul Cotton (cantante e chitarrista di Chicago, in forza dal quarto album dopo che era stato raccomandato al gruppo dai... Chicago).
I compositori al lavoro sono tre: Cotton con quattro brani, Young con tre e Schmit con due. Cotton è voce solista nei suoi pezzi, al resto ci pensa Schmit; il timbro di questi, notoriamente (grazie al prosieguo di carriera negli Eagles) alto, aggraziato, preciso e pulitissimo, è una delizia per le orecchie e surclassa inevitabilmente quello baritonale, competente ma assai meno speciale di Cotton. Quest'ultimo provvede agli assoli di chitarra elettrica e acustica, anche qui competenti ma nuovamente messi in secondo piano, stavolta dal brillantissimo lavoro solista di Rusty, quale che sia lo strumento estratto dal suo vasto armamentario.
Il disco esordisce con una gemma abbagliante, un capolavoro del country-rock a merito di Rusty Young ed a titolo "Sagebrush Serenade". E' divisa in due parti: la prima si apre coi rintocchi di uno stupendo, larghissimo arpeggio di acustica, sopra il quale si appoggia la flautata voce di Schmit, prima da sola e poi armonizzata in maniera sempre più ricca, mentre si fa attraversare dalle note lunghe e sinuose di una celestiale steel guitar. Dopo neanche tre minuti di paradiso in terra irrompe una gioiosa coda strumentale alla maniera bluegrass, con il vorticoso alternarsi di banjos e chitarre di ogni tipo, in mano ai due solisti del gruppo ma specialmente a Young, su una base ritmica serratissima e piena di stop&go. Il breve rientro della parte vocale conclude la squisita, grandiosa sarabanda.
Impossibile ripetersi a questi livelli, ma Cotton vi riesce quasi con l'ottima "Another Time Around", caratterizzata da un incalzante ed elegante riff rock'n'roll della sua Fender, che incrocia energicamente, dall'inizio alla fine, il suo canto e poi il turbinio di assoli sia suoi che di Young, quest'ultimo alle prese con una Steel Guitar completamente trasfigurata rispetto al sognante timbro di "Sagebrush...", carica di phasing, grintosissima e aspra.
"High & Dry" è un altro bel momento rock, stavolta dovuto alla penna di Young, cantato in maniera corale da tutti e quattro dall'inizio alla fine (la voce di Schmit è comunque fatta svettare) e nuovamente abbellita da un brillante break strumentale, nel quale anche il batterista Grantham viene al proscenio.
Cotton è in buona forma in questo disco, ed anche se la sua non è una statura musicale da fuoriclasse, si fa sempre ascoltare volentieri come autore ed esecutore, sia in "Susannah", uno strascicato blues che si incendia (un poco) nel ritornello, che in "Western Waterloo", invero un po' telefonata, e in "One Horse Blue".
Schmit provvede alla sua quota soprattutto con la semiacustica "Bitter Blue", una di quelle canzoni che partono alla grande colla strofa bella tesa e interessante, ma poi si ridimensionano con un ritornello scialbo. L'altro suo contributo, la scanzonata "Whatever Happened to your Smile" è poca cosa e mostra la scarsa propensione di questo ottimo bassista/cantante per la composizione, avvalorata dai cinque dischi a proprio nome fatti uscire in carriera, del tutto trascurabili.
Poco male per lui, divenuto miliardario ormai da trent'anni a questa parte e forte anche di un curriculum astrale di partecipazioni come corista a dischi altrui (Steely Dan, Toto, Bob Seger, Boz Scaggs, Richard Marx e, dulcis in fundo, come sostituto di David Crosby quando questi era troppo ottenebrato dalle droghe). Ma non se l'è mai tirata, l'ancora capellone Tim, per questo viene ancora e sempre accolto volentieri dai suoi ex-compagni dei Poco, sul palco e davanti a qualche centinaio di fedelissimi, quando nelle pause delle affollate tournèe mondiali del suo attuale gruppo trova modo di fare loro un'ospitata, per cantare qualcuno dei vecchi brani dove anche lui aveva messo lo zampino, magari "Sagebrush Serenade".
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