Una logica e naturale conseguenza del precedente "Flesh & Blood". Un guitar hero di lusso per un album che avrebbe voluto portare i Poison nell’elite più raffinata, dopo tanto rock stradaiolo e glamour. Un tentativo di spostarsi verso un mercato blues oriented, per scappare dalla zona soggetta agli attacchi grunge. Una figa di troppo, la ragzza del batterista Rikki Rocket, trovata a letto proprio con Richie Kotzen, il chitarrista di cui prima. Band in piena crisi di nervi, licenziamento per il neo assunto e definitiva pietra sulla prima vita dei velenosi. Questi sono l’alba e il tramonto di "Native Tongue", sfortunata quanto sottovalutata rampa di un lancio mai avvenuto. Probabilmente lapide sulla musica di Bret Michaels e soci.
Eppure risulta lodevole - non solo per le intenzioni - questo disco che, dopo tanto tempo, prova a metterci davanti a una band matura - visto anche il prezioso innesto alle sei corde - che vuole dare prova di sé sulla lunga gittata proponendo brani finalmente più lunghi ed elaborati del solito. Da musicanti a musicisti, da artigiani ad artisti. Avevano molto divertito prima ma non avevano mai incantato per tecnica o originalità compositiva. Avevano solo azzeccato melodie incredibilmente divertenti. A quel punto, dopo sette anni di carriera, nel 1993, ci provano facendosi prendere per mano da Kotzen che li conduce in un’avventura molto radicale. La band si spoglia dalle pajettes e dalle fluorescenze, e lascia spazio al colore della terra. Non ci sono più capelli cotonati ma corpi semi nudi (peraltro Bret Michaels in forma incredibile) e ambientazioni da foresta vergine. Non è molto veritiera la presentazione del booklet ma sicuramente è d’impatto. È che racconta una storia finta.
Non finto, né costruito a tavolino è invece il livello compositivo della band che con Kotzen trova, oltre ad un sound caldissimo, riff più articolati ed assoli che sinceramente prima i Poison si potevano solo sognare. Il genere musicale esce quindi definitivamente dal glam e diventa un ballad-blues accogliente e anche un po’ nero, arricchito da suoni e cori che potrebbero far parte di un gospel della Louisiana. Tentativo interessante di rinnovare la propria musica, retto splendidamente in piedi da una produzione aurea che smalta a dovere questa lunga tracklist di 15 brani.
Dopo la titletrack – intro strumentale a base di batteria ed effetti da foresta tropicale – si entra direttamente in scena con un pezzo che non ha mai fatto faville in uno stadio ma lo avrebbe meritato. "The Scream" è una super song che sottolinea con l’evidenziatore le nuove doti della band, capace di correre veloce come una volta, decorata da una chitarra degna di competere con gli altri supergruppi degli anni 80 e 90, e con un Bret Michaels che spremendosi riesce a salire in alto, strutturando i suoi toni su quelli delle voci/coro di sostegno. La discolaggine punk è svanita nei suoni acchitati e ingegnerizzati in fase di produzione, per essere distanti dall’ormai vecchio L.A. sound e spostarsi nelle zone del cotone, lontano dalle due coste. Un progetto davvero ambizioso.
Così incredibilmente ambizioso da generare una canzone come "Stand", dove church choirs e atmosfere ad alta profusione di pathos cristianamericano, portano in direzione della terza costa, quella sul Golfo del Messico. Il pezzo è convincente perché stucchevole come uno spiritual recitato a Las Vegas. Plastificato, entusiasmante, americano. Voci nere che tendono all’alto dei cieli fanno fare una bellissima figura a Michaels, mentre Kotzen suona la sua chitarra all’ombra di un albero tra le piantagioni. Altro brano degno di nota è "Untill You Suffer Some (Fire & Ice)", una ballad tipicamente anni 90, anch’essa sfortunata perché avrebbe potuto avere il successo di quelle di Aerosmith e Bon Jovi senza nulla da invidiare loro. Su "7 Days Over You" la fanno da padrone i fiati che consolidano l’ambizione blues della band unendo una filosofia catchy ai suoni di colore. Da ricordare c’è anche "Bastard Son Of A Thousand Blues" che già nel titolo dice tutto. "Ain’t That The Truth" non posso dimenticarla, potenziale hit ruffiana com’è. Per il resto si viaggia a questo livello: sempre alto, mai magnifico ma comunque intrigante.
Quando comprai questo disco non gli avrei appioppato più un due. Il tempo – e per la precisione gli anni – mi hanno insegnato ad apprezzarlo e a valutarlo. Da qui il mio voto che sicuramente sarà condiviso dai fans di Kotzen, che peraltro ho avuto la fortuna di vedere poco meno di tre anni fa dal vivo. Un chitarrista come si deve.
La band, dopo i problemi di corna manifeste generati proprio da quest’ultimo come spiegato in apertura di recensione, ha praticamente ignorato quest’album proponendo nel suo enorme Greatest Hits solo "Stand", che dal vivo a volte ritorna. Ma anche no. Un peccato che sia finita così perché questa strada, seppure un po’ innaturale in partenza, poteva essere quella giusta per i Poison che sono poi tornati a fare la loro solita musica con pochi alti e tanti bassi da dimenticatoio. "Native Tongue" è un passo nel buio.
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