Come definire Popa Chubby ? Un mitico chitarrista blues nato da un placido ragazzone newyorchese. Sì, direi che è la definizione più appropriata.

Più della metà dei DeBaseriani non sa minimamente di chi stia parlando (non per che siate ignoranti, ma altrimenti ci sarebbero già delle recensioni sull’argomento), quindi farò una breve introduzione. Frank Horovitz alias Popa Chubby, è un bluesman newyorchese che si è affacciato sulla scena musicale circa all’alba dei ’90. Come la maggior parte dei suoi contemporanei colleghi americani riscuote gran successo in patria, ma rimane di nicchia profonda al di fuori degli States. Tuttavia per chi come me ha avuto la fortuna di conoscerlo (come artista naturalmente), è diventato un punto di riferimento nell’intero panorama statunitense, ma tenete sempre presente che è musica per chitarristi e che io essendo di parte non posso esprimere un giudizio massimamente obbiettivo.

Ad ogni modo il suo è un blues moderno, aggressivo, ma non cattivo e ricco di ritmi sincopati a volte striati di hip hop. Per questo suo stile tradizionale e particolare allo stesso tempo è da alcuni considerato il fondatore di un vera e propria scuola, chiamata per l’appunto Scuola di New York. Veniamo al disco: mi accingo a recensire quello che mi è piaciuto di più. Dalla copertina si capisce subito che il nostro amico è uno che non se la tira per niente: raramente ho visto copertine con meno pretese di questa. La prima traccia è sfolgorante: riff rock-blues che più classico non si può, ritornello scatenato e scatenante e assolo. La musica si ripete nelle due successive, ma è un piacere per nulla noioso. Con la quarta arriva il primo capolavoro del disco, “The Sweet Goddess Of Love And Beer”, gran titolo e gran pezzo rock abbastanza orrecchiabile, la musica è di una semplicità devastante e l’assolo emoziona come pochi.

Da qui alla otto spicca il classicone “Same Old Blues” e, a seguire, un bel rock’n’roll in stile Zztop è ottimo per scuotersi dalla pur bella apatia dei lenti. Dopo un altro bel blues pesante siamo arrivati alla canzone più grandiosa del disco. S’intitola “Angel On My Shoulder” e fa vibrare l’anima con il suo blues dominato da un chitarra antologica e dalla voce graffiante del paffuto ragazzo di Manhattan. Chiudono il disco un bluesaccio di Chicago e una ballata, inframezzati da un improvvisazione su scale maggiori divertente e raffinata che occupa una traccia di venti secondi.

La semplicità è grande ed effimera, il blues è questo, prendere o lasciare.

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