Prima di Brian Eno, prima della terminolgia "ambient" applicata ad un genere musicale, prima di qualunque altro, secondi soltanto alle sperimentazioni della scuola di Colonia di Karlheinz Stockhausen c'erano i Popul Vuh.

Ipotizzando un immaginario paradiso o nirvana a metà strada tra quello buddista, cristiano, e indù, non si può immaginare nessun meglio di loro, come ospiti musicali a deliziare i presenti per l'eternità. Le tradizioni mitologiche del Walhalla germanico e indo-ariane, sublimate in un parnaso senza l'ombra alcuna di ideologie, con l'unico desiderio di riportare la musica ad una condizione di purezza primordiale. Cosi i tamburi ridiventano grazie ad una magia bianca e positiva, tronchi d'albero sui cui percuotere rami e pietre, i sintetizzatori si piegano per volere di Florian Fricke nell'emettere frequenze in grado di dialogare con la natura.

L'estasi mistica viene raggiunta assieme agli altri due sciamani del gruppo Holger Trulzsch e Frank Fiedler, con l'uso sapiente di mantra sonori presi in prestito dalla musica antica tibetana e africana; i flauti dolci o traversi sono suonati dal vento, il mellotron simula prima ruscelli, poi fiumi che diventano oceani, prima dell'illuminazione spirituale completa davanti alle porte dell'infinito. Tutta la musica dei decenni successivi è in debito di riconoscenza di fronte a questo "In den Gärten Pharaos" del 1971, il valore antropologico dell'espressione musicale autentica diventa patrimonio dell'umanità, riconosciuto da pochi ma grandi e autentici maestri come Werner Herzog, che non può fare a meno della musica dei Popul Vuh in alcuni dei suoi capolavori cinematografici.

La dipartita dal pianeta Terra di Fricke nel 2001 deve farcelo immaginare nella continuazione di quello che aveva iniziato con un corpo terreno: fare dono al cosmo e al creatore del non-tempo di alcuni dei suoni più belli mai prodotti su questo piccolo e insignificante pianeta alla periferia estrema dell'universo fisico conosciuto.

Franco De Biase

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