Esistono tanti buoni musicisti ed autori, alcuni anche eccellenti, ma pochi possono essere considerati dei fuoriclasse, degli unicum di cui esiste un solo stampo: Steve Wilson appartiene, appunto, a questa categoria. Come un moderno re Mida tutto quello che ha toccato con le sue sapienti mani fino ad oggi è diventato oro, anche se il tesoro da lui accumulato, con diademi e gemme di varie tipologie e caratura, è stato, fino ad oggi, un segreto ben custodito, fin troppo. La sua versatilità, unita ad una curiosità e una voglia di divertire (nel senso etimologico di divértere, cioè volgere in direzione opposta) non comuni lo hanno portato ad esplorare generi e sonorità che, da chi ha una concezione rigida e piramidale della musica pop-rock, potrebbero essere considerati difficilmente conciliabili.

Nei suoi due principali progetti No Man e Porcupine Tree, più pop il primo e più rock il secondo, la varietà, gli accostamenti arditi, le aperture fantasiose sono sempre stati i tratti caratteristici, insieme ad un mirabile equilibrio e ad un innato stile che gli hanno sempre impedito di avvicinarsi ai campi minati del kitsch o agli scivolosi pendii della maniera e dell'autocompiacimento. Negli ultimi tempi la sua insaziabile voglia di misurarsi con sempre nuove esperienze musicali, il suo desiderio di manifestare interamente la sua espressività, lo hanno condotto fino alle insidiose terre del Metal; ed anche qui ha saputo compiere un piccolo miracolo, producendo mirabilmente l'album "Damnation" degli svedesi Opeth, uno dei pochi album di quel genere degli ultimi anni che io salverei.

Con "Deadwing", album uscito di recente, Steve e la sua magnifica band che vede, tra gli altri, anche "manidifata" Barbieri, già con D.Sylvian e The Dolphin Brothers, centrano ancora l'obiettivo. Insieme al rock più tradizionale, ad una certa attitudine progressive, a calibrate e sempre coinvolgenti sperimentazioni, ad un retrogusto più pop che fa capolino in alcuni brani, questa volta anche chitarre quasi heavy metal si affacciano prepotenti. Evidentemente la recente esperienza con gli Opeth ha lasciato dei segni. Questa nuova sferzata d'energia compare soprattutto nei primi due brani: nella title track, dove i Porcupine suonano come i migliori Motorpsycho, con la chitarra di Adrian Belew a dare manforte, e in "Shallow", brano di impatto ancora maggiore, con riff di chitarra di sapore pageiano ad alzare inossidabili pareti musicali. Con "Lazarus" si cambia registro e il piano di Barbieri diviene protagonista, disegnando una ballad certamente intensa, anche se un po' convenzionale. Con "Halo" si decolla di nuovo al ritmo del basso di Colin Edwin che "pompa" in modo forsennato, coadiuvato al meglio dalla batteria di Harrison; distorsioni vocali e chitarre tiratissime condiscono un brano senz'altro rock. "Arriving Somewhere But Not Here" è il tentativo più ambizioso di Wilson, brano di circa undici minuti, che condensa il senso dell'album e contiene un po' tutti i vari "ingredienti presenti in "Deadwing", compreso un inatteso finale metal prog. Il brano più wilsoniano, quello che alcuni vecchi fan ascolteranno con un briciolo di nostalgia, è "Start Of Something Beautiful", con le liquide atmosfere neoprog (ma il termine semplificante non piacerebbe a Wilson), con le tastiere di Barbieri in risalto.

La musica dei Porcupine è come una pietanza molto ricca di sapori, cucinata da un grande chef: non è per tutti i palati; ma coloro che stanchi di fastfood o monotone cucine regionali, volessero provarne il sapido gusto, potrebbero rimanerne conquistati e del tutto appagati.

Carico i commenti...  con calma