Attesa sofferta quella per il nuovo album dei Port-Royal, forse da qui lo spunto per il nome dello stesso. Non tanto per eventuali silenzi o ritardi – i Nostri fortunatamente ci deliziano con regali a cadenza praticamente annuale – né perché li si aspettasse al varco per un giudizio su una maturità che hanno già ampiamente dimostrato di possedere, quanto per capire quale sarebbe stata la nuova direzione intrapresa dal gruppo genovese.
Nel corso degli anni il loro post-rock tinto di shoegaze, ambient e umori sovietici si è gradualmente mescolato ad influenze elettroniche, e, con un album chiamato "temere di ballare", in cui per la prima volta i beat danzerecci hanno fatto capolino negli episodi più riusciti – la stupenda decada/enza, che nulla ha a che vedere con il citazionismo nostalgico del tamarro Ax –, il timore di una possibile svolta tunza ha turbato i sonni estivi di molti loro aficionados.
Di fatto si può dire che un'evoluzione in questo senso ci sia stata, ma senza compromettere l'estetica del gruppo. L'utilizzo di beat elettronici è diventato meno sporadico, talvolta persino sostenuto, ma non mancano passaggi più lenti e dilatati in cui recuperare il respiro.
Le prime tracce riprendono il discorso dove lo si era lasciato nel 2007; non è difficile scorgere linee melodiche di "Afraid To Dance" in alcuni dei movimenti di "Nights In Kiev", ma vengono introdotte in un inedito contesto ritmato che culmina nelle vigorose percussioni di "Anna Ustinova". Dopo una breve pausa l'esperimento viene ripreso, alterando di volta in volta il bilanciamento e il posizionamento di fasi sostenute e fasi distese (prima come introduzione, poi a intervalli e infine in calce ai brani). Qui spiccano alcuni tentativi con la forma-canzone – "The Photoshopped Prince" – e con le strutture graziosamente dance del primo singolo, "Balding Generation (Losing Hair As We Lose Hope)", accumunate tanto da una compiutezza melodica quanto da una scelta dei titoli perlomeno bizzarra. Chiude l'album la classica "suite" divisa in tre parti di stampo royal, "Hermitage", varia e suggestiva, che, pur non rinnegando le novità introdotte, non mancherà di soddisfare i nostalgici del periodo "Flares".
Quella dei Port-Royal è una musica descrittiva, un flusso sognante ininterrotto la cui capacità evocativa dipende in gran parte dalle trame di synth, e, seppur si sia mantenuta una qualità eccellente, il rischio è quello di non riuscire a conferire ai singoli episodi un'atmosfera peculiare che li possa differenziare e rendere unici.
Ma "Dying In Time" è un bell'album: stratificato, dal ritmo sapientemente dosato, senza particolari cali e con qualche picco qualitativo. Un album la cui unica sfida è il doversi confrontare con precedenti altrettanto validi e dai quali si distacca più dal punto di vista dell'uso delle percussioni che non da quello dei timbri sonori.
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