Sconcerto. Questa è la prima impressione che ho ricavato nell'ascolto del nuovo, atteso e ormai quasi insperato lavoro del combo di Bristol. Il credito accumulato col seminale "Dummy" nel 1994, ribadito a distanza di tre anni dall'omonimo Portishead sebbene l'effetto fotocopia fosse più che evidente, era immenso e ancora tutto da spendere.
Trasposizione in musica di un film in bianco e nero al rallentatore. Questa l'immagine che generava nell'ascoltatore quel crogiuolo di suoni. Il genere fu battezzato trip-hop o addirittura Bristol-sound (in omaggio alla città di appartenenza del trio) e si sprecano gli epigoni che hanno saccheggiato il genere, fino a degenerarlo in un anonimo e distaccato chill-out, specie di musica da intrattenimento buona per sorseggiare un drink in compagnia o per trascorrere una spensierata mezzora di happy hour.
Nel 2008 bisogna riconoscere che il trip-hop aveva già presentato il conto e questo i Portishead lo hanno capito facendo tabula rasa dei due precedenti lavori e azzerando ogni coordinata spazio-temporale. Se però con "Dummy" l'effetto sorpresa e novità fu immediato, nonché capolavoro del genere universalmente riconosciuto, fra questi solchi si fatica non poco a scorgere l'alba di un nuovo giorno. L'accostamento con le due precedenti opere, oltrechè blasfemo, appare quantomeno insensato.
I ritmi si sono fatti robotici, freddi, cupi e senz'anima. Beth Gibbons dà l'impressione di cantare con gelido distacco su basi strumentali che non le appartengono. Srotola litanie in molti casi avulse - nemmeno fosse John Cage alle prese con "Indeterminacy" - dalla parte strumentale incentrata su una sorta di kraut-rock futurista filtrata attraverso membrane metalliche.
La decantata Machine Gun con la sua martellante base in stile metallurgico catapulta l'ascoltatore in un alienante mitragliamento elettronico rendendo straniante e fuori luogo l'ancorché celestiale voce della Gibbons, invero molto più a suo agio in brani retrò-malinconici, che formarono l'asse portante di "Out Of Season" album del 2002 co-firmato da Rustin Man (alias Paul Webb ex bassista dei Talk Talk). I ritmi industrial-dark-wave mandati praticamente in loop di Plastic e di We carry On accrescono la sensazione di asfissiante claustrofobia che si ricava man mano che le tracce avanzano. The Rip e Small con il loro lento incedere minimalista circuiscono l'avventore per poi tempestarlo nel finale con una coda strumentale che rimanda in qualche modo a certa psichedelia di fine anni sessanta.
Ogni traccia sembra ricalcare la precedente senza particolari emozioni e quando i toni si placano come nel caso di Deep Water non si capisce bene se quel brano sia capitato lì per caso o se Geoff Barrow abbia estratto dal cilindro qualche vecchio frammento di un dimenticato b-movie americano d'anteguerra. Francamente inspiegabile.
Solo sul finire del cd, in particolare negli ultimi due brani, Magic Doors e Threads, gli algidi toni futuristici si stemperano per lasciar riaffiorare, a tratti, pallidi sentori del passato.
Con ogni probabilità questo non è un lavoro da una stellina, né tantomeno da cinque stelle e ragionando assennatamente, potremmo ricondurre la verità, come in molti casi accade, all'incirca a metà strada. Con le bocce ancora in movimento non è facile dare un giudizio ponderato e come al solito delegheremo al tempo il responso definitivo sulla bontà del progetto.
Nostalgicamente e (lo ammetto) con un po' di magone, fra il serio e il fiabesco, mi viene solo da dire "C'erano una volta i Portishead...".
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