I clown sono così tristi... personaggi metafisici che fungono da immagine goliardica del fallimento umano nella frenetica scalata al potere. I bambini non ridono per le loro capacità, deridono alle spalle la loro funzione sociale sapendo che non dovranno mai diventarne epigoni, colgono inconsapevolmente la tragedia celata sotto al cerone.
I Pram sono un misconosciuto gruppo inglese nato negli anni novanta e tutt'ora in attività, la loro musica è un circo itinerante fatto di nani, pagliacci e donne cannone, un tendone dipinto di tristezza e travestito da giocattolo per il mondo dei felici.
Il disagio è rappresentato dalla voce di Rosie Cuckston (anche alle tastiere e al theremin), anemica e dolente, canta alle stelle in tono dimesso il dolore di una vita che non porta più rispetto a chi ha un reddito inferiore ai quindicimila euro annui.
La splendida musica che la sorregge cela un toccante contraddittorio musicale. Il suono nasce infatti dalla tradizione del music-hall e del vaudeville, dalle operette comico satiriche degli anni trenta e dall' avanspettacolo ma non ne rimane semplicemente derivativa. Ne ribalta anzi il significato, non più divertente intrattenimento colto ma veicolo di un profondo senso di inadeguatezza al mondo moderno.
Si può affermare che come gli artisti della new-wave espressero lo status di angoscia e alienazione nella società industriale, i Pram fecero lo stesso con la realtà degli anni novanta e duemila, quella dei reality show e dei format televisivi, in cui l'individuo è apprezzato e compiuto solo se conosciuto o famoso, affermato agli occhi dei più, inserito in un contesto sociale che gli permetta di essere salutato e glorificato per la strada o in altri luoghi d'aggregazione.
Ci troviamo quindi a danzare con una lacrima nera dipinta sulle gote, fra i palloncini colorati che volano sostenuti da tocchi di tastiera psichedelici, stranianti e fugaci, fra i birilli di un synth acrobatico, ipnotico e ispirato (grazie Ravenstine), sulle rullate pirotecniche, delicate e senza sosta di percussioni che rotolano e dondolano nel cervello fra un orecchio e l'altro, sui trapezi innalzati da un basso equilibrista, sulle aste sospese nell' aria da una chitarra inafferrabile e leggiadra, fra le innocue fiammate di un sax, i tintinnii di un triangolo e le vibrazioni di un campanellino.
E' un disco veramente unico e incatalogabile, fluido ed elegante, dolce e raffinato, che non cerca impennate o sorprese bensì un' identità complessiva; un album composto da melodie circolari e da un fitto tappeto sonoro che fra le sue pieghe lascia scorgere frammenti dell' afflato gotico di Nico (My Father The Clown, poetico capolavoro), dei saliscendi psichedelici dei Doors (l'incalzante Gravity), delle epilessi sintetiche dei Pere Ubu (Dancing On A Star e Little Angel, Little Monkey), dell'eleganza del jazz-rock notturno dei Gong (Blue) e dei cerebralismi dell' avanguardia di Philip Glass (Shadows).
E' un opera che ha tutti gli elementi giusti per poter essere vivace ed allegra ma risulta invece incommensurabilmente triste ed incompresa, magica ma malata.
Non c'è richiesta d'aiuto, solo inerte rassegnazione al confinamento nell'immeritato stato di falliti.
"Helium" è un pagliaccio con laurea, solo davanti allo specchio nel suo camerino, intento a struccarsi con l'amarezza e la consapevolezza che ciò che si rivelerà agli occhi del mondo non è poi così diverso dalla propria maschera.
...The Show Must Go On...
Profondi!
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