Mi costringo faticosamente a scrivere qualcosa sui Prefab Sprout, anche se questa volta - mi dico - mi faccio un ragalo per la rece n° 50. Certo sarebbe facile dipingere le solite lodi sperticate a Paddy e soci, ma che resterebbe poi? E soprattutto, se qualche sfortunato non avesse mai sentito una loro nota e leggesse questo scritto, cosa gli rimarrebbe?

E dunque non resta che tentare di descrivere il disco. Sì, ma come? Sono già stati usati tutti gli aggettivi migliori. Synth pop da lacrimoni, Paddy che ha una faccia da schiaffi ma canta e compone divinamente, un gruppo che ha dato il meglio nel suo tempo, e poi...e poi "Steve McQueen". Sì.

Se guardo la copertina mi viene da ridere, non lo nascondo. Di certo a loro non deve essere sembrato di sfigurare, dopo quell'immagine così evocativa che simboleggiava la porta allo scrigno di "Steve McQueen". E cercare di scrivere un seguito a quel miracolo, lo sappiamo bene, era praticamente impossibile: troppi accordi erano riusciti al posto giusto al momento giusto, troppa magia circondava quei solchi. Eppure.

Eppure, si dà il caso che dove non arrivi la magia, arrivi il talento, l'abnegazione, o forse solo l'enorme impegno. Certo non bastano ad avere quel "quid" in più, ma di sicuro parti avvantaggiato. E allora questo "From Langley Park" è l'album dove forse più si sente lo sforzo profuso nel non far rimpiangere il suo predecessore. Neanche in "Jordan" si ode tanta dedizione, perché lì si era già in un'altra fase. E allora, innanzitutto Paddy. Mai sentito cantare così bene, così espressivo, con il cuore in mano. In The Golden Calf e nell'iniziale The King of Rock n Roll (ma guarda un po') rivaleggia nientemeno che con Elvis. In Cars and Girls dipinge un ritratto della giovinezza perduta..."some things hurt more, much more than cars and girls". Persino nei rifacimenti di "Steve" riescie a metterci qualcosa in più; le conclusive Nancy e Venus of the Soup Kitchen altro non sono che b-sides di Blueberry Pies e When The Angels, o almeno così mi sembra. E poi, c'è I Remember That, talmente elegiaca da risultare quasi immateriale, soffusa e inarrivabile. Come le stelle: inarrivabili, ma impossibile smettere di ammirarle. Un racconto che non è un racconto, sono solo quattro minuti di puro e ritrovato incanto. Cos'altro? Stevie Wonder all'armonica in Nightingales e Pete Townshend con l'acustica in Hey Manhattan, ma suonano come cameo, niente di più.

Cosa c'è di storto, allora? Un reggae forse, che proprio non ti aspetti da questi ragazzi. O la chiusura, leggermente sottotono, ma questo l'avevo già detto. Ecco, se dovessi dire cosa manca qui, forse è proprio la sincerità: la stessa sincerità che è impossibile non ricercare dopo che hai sentito Bonny o Desire As. Qui ci sono professionalità, tanto talento, affiatamento. Ma tutto risulta più "costruito", in qualche modo più artificiale. I Prefab Sprout, te ne accorgi alla fine del disco (e ventisei anni dopo), alla fin fine c'erano cascati: avevano cercato una replica laddove questa era irrealizzabile.

E allora, cosa hai detto fino ad ora, caro recensore? Tutto e il contrario di tutto. Non è possibile parlare di certi artisti con la testa, bisogna farlo per forza col cuore, e con la pancia. E raccontare di dischi imperfetti, ma non per questo meritevoli dell'oblio. O no?

Carico i commenti...  con calma