Chi ritiene la musica non un semplice svago, ma una dilettevole passione, sa bene che vi sono degli album e delle canzoni legati indissolubilmente a degli snodi importanti, che hanno sancito delle svolte nella nostra vita; che hanno contribuito, in modo nient' affatto marginale, a determinarle, a creare le condizioni, come dire, psicologiche perché esse potessero avvenire.
Vi sono poi altri dischi che, invece, è come se ci fossero sempre stati, di cui non puoi più fare a meno: fanno ormai parte di te; sono a tal punto metabolizzati che fai non poca fatica a collocarli nella giusta prospettiva storico-esistenziale. Sono quegli album che non si annunciano. Ti corrono incontro, e subito ti accorgi che sono proprio quelle musiche e quelle parole che stavi aspettando, che riescono a dare pienamente voce a quella parte di te più antica, istintiva, che spesso ha la camera più ampia in quella sorta di labirintico appartamento disegnato da Escher che è la nostra personalità. Succede, per certi versi, come in un fortunato incontro amoroso, quando ti sembra, fin dal primo momento, di conoscere da sempre quella persona che ti sta davanti: le nebbie si dissipano e riesci, in quell'attimo, ad intravedere tutte le indicibili gioie e gli immancabili dolori che inesorabilmente ti attendono.
Ecco, se dovessi indicare uno di questi album fatali, probabilmente il primo nome che mi verrebbe in mente è "Steve McQueen" dei Prefab Sprout.
Esso non è solamente una delle migliori raccolte di pop-songs dell'era post Beatles. E' anche il tentativo più convinto che, per certi versi, desta ammirazione nonché stupore, da parte di Paddy McAloon, songwriter eccelso e anima del gruppo, di riuscire nell'impresa utopica che tutt'ora lo affatica: scrivere la canzone perfetta. Sfogliarne le "pagine", è come guardare per l'ennesima volta un caro album di famiglia: si scopre sempre qualche nuovo particolare; ed i sentimenti che quelle foto, qualche volta sbiadite, ti provocano, non solo si rinnovano, ma si arricchiscono.
Così, periodicamente, mi perdo e mi approfondisco nel country di "Faron Young", elettrificato dalla sapienti mani del "maieuta" Thomas Dolby; nelle cristalline e calibrate melodie di "Bonny", di "Appetite" ( "Then I think I'll name you after me / I think I'll call you appetite...), nella superba e sofferta "When Love Breaks Down" ("When love breaks down / The things you do / To stop the truth from hurting you / When love breaks down / The lies we tell, / They only serve to fool ourselve..."); cerco e trovo conferme nelle trame soul-jazz di "Googbye Lucille # 1", nell'eterea bossanova da camera di "Horsin' Around", in quella vera e propria summa di musica leggera che è "When The Angels", con Bacharach e Cole Porter numi tutelari.
Si cresce, si cambia in modo anche sorprendente, di diventa quasi un'altra persona, a distanza di vent'anni. Ma l'ascolto di album come questi ti rivela qualcosa che, in cuor tuo, hai sempre saputo, e che cioè si rimane sempre in balia delle stesse emozioni e degli stessi sentimenti.
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