"Sono proprio incontentabili questi metallini del Duemila!" avranno pensato i componenti dei Primal Fear, che dopo lo sperimentale e agile "16.6 Before The Devil Knows You Are Dead", si sono inspiegabilmente trovati a fronteggiare un pubblico che aveva accolto con freddezza le coraggiose variazioni sul tema. Rifiutati i primi due album, infarciti di copie-carbone dei Judas Priest più granitici, non apprezzati gli inserti vagamente industrial di metà carriera e ora nemmeno la grande varietà melodica raggiunta: situazione da far perdere le staffe a chiunque.
Come comportarsi allora se eccetto lo zoccolo duro degli irriducibili fans (molti dai tempi dei gloriosi Gamma Ray) la creatura di Ralph Scheepers non riesce proprio a sfondare? Semplice: dimostrando a tutti che i fantasmi di Halford sono definitivamente (o quasi, come vedremo) alle spalle e praticando un sano bombardamento all'insegna di un heavy/power di qualità. Non quello da "viaggio nel mondo arcobaleno" di molte pseudobands, bensì serietà (non eccessiva alla Manowar per intenderci) e cori cattivi, accattivanti e mai zuccherosi. Prendiamo la opener "Strike": nulla di nuovo sotto il sole, sembra risalire direttamente dal loro debutto del 1998, ma qui LA voce del power moderno, "the other Metal God" si esibisce in lunghe tirate di acuti fantastici che ai tempi sarebbero state semplicemente un tributo ai Priest, ora portano impresso un grande marchio "Primal Fear". Questa definitiva emancipazione da linee guida troppo stringenti (che - lo dico per i meno attenti o semplicemente per l'ascoltatore occasionale- era già in corso da almeno due dischi) è il liet motiv dell'album, anche verso la fine i riferimenti al God of Metal aumentano sensibilmente. Sarebbe un'ingiustizia non parlare del lavoro melodico e vincente della chitarra di Alex Beyrodt: in ogni cavalcata il suo contributo solista è essenziale, così come nell'anthem "Bad Boys Wear Black" (puerile quanto vuoi nel testo, solidissima nella struttura musicale) e "Metal Nation" (nata proprio da una sua idea), i pezzi più melodici. I Primal Fear fanno dischi tutti uguali? Bene, sentite "Where Angels Die", otto minuti di metal, passaggi orchestrali e progressivi, con riff portante acustico, e poi smettete di citarli come band che per antonomasia è ferma al sound di "Painkiller".
I detrattori potrebbero finalmente accorgersi del valore di un ormai grande gruppo, i fans piazzeranno questo disco tra i migliori dei Primal Fear, senz'altro è il più completo.
Unbreakable: di nome e di fatto.
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