Dubito che un giorno riuscirò a trovare parole per "Se questo è un uomo". Un unicum nella letteratura di tutte le epoche, un monolite immane che incide la pelle come il preciso strumento del tatuatore, una porta finale attraverso la quale non si passa indenni, se non accecati dall'ideologia nazifascista o da un non rimediabile abbrutimento dell'anima.
Leggere "La tregua" è come sorridere, vilmente imbarazzati, subito dopo il passaggio di un amputato, di un deforme nel corpo, di una congrega di pazzi accompagnati da suore; è appena passato un rappresentante di un inferno terreno, una prova del distorto amore di un grottesco dio immaginario nei confronti dell'uomo: ma a noi che guardiamo con indifferenza, cosa importa? Siamo stati fortunati nel ricevere un corpo mediamente armonioso, il cielo splende, di stelle o di sole, non facciamo la fame; questo basta per scacciare immagine di sofferenze pregresse e destinate ad altri?
Leggere "La tregua" è osservare le lontane vicende di Odisseo/Nessuno trasportate nel 1945. Per sfuggire al terrificante ciclope Odisseo diviene Nessuno: astuzia mista a brillante malvagità che permette all'eroe di accecare il monocolo, salvare se stesso ed i compagni e tornare ad un mondo da cui, tralasciando la strage dei Proci, è bandita la violenza e nel quale regna l'amore e la giustizia.
Primo Levi e coloro che fisicamente scamparono allo sterminio cambiarono i loro milioni di nomi in Nessuno; e anche qui, milioni di travi furono appuntite sotto forma di brutalità, specializzazioni professionali, forza fisica, fortuna, estrema intelligenza o estrema abiezione: ma stavolta non per accecare il ciclope, ma per distogliere l'occhio del destino dalla direzione della propria esistenza per un giorno, pochi mesi, troppi anni. E, ad estrema differenza con l'epilogo il mito omerico, non ci fu alcun ritorno ad un mondo migliore.
"La tregua" è il ritorno alla vita di un arto troppo a lungo paralizzato: il sangue che fluisce è dolore estremo e cauta gioia allo stesso tempo; e ognuno reagisce alla contraddizione come sa.
Primo Levi non abbandona mai la sua prospettiva di chimico letterato; senza farsi mai ottenebrare dalla sofferenza passata mantiene intatta la sua enorme intelligenza, la sua capacità di rendere traslucida l'estrema opacità della materia-uomo, di studiare l'umanità che gli sfreccia accanto e gli avvenimenti storici che lo sovrastano con la filosofia del chimico di Spoon River. Ma, a differenza dell'ottusità di quest'ultimo, Primo Levi setaccia le sue osservazioni attraverso le strette maglie di una sensibilità acutissima giungendo così a comprendere pienamente l'illogicità e la stranezza dell'agire umano.
Gli amici Cesare, Leonardo, Daniele, le tragiche, immani e miserabili immagini dei "sognatori", il geniale dottor Gottlieb, l'epico folle Moro di Verona, l'inetto Ferrari, l'ottenebrato ladro-attore Trovati, il ladro Cravero; e ancora, il Virgilio greco Mordo Nahum (guerra è sempre), le prostitute del bosco, l'enigmatico Tenente russo, i selvaggi eremiti Velletrano e Cantarella; Marja Fjodorovna, la bella Galina e i soldati russi, figure epiche e gigantesche nella loro umiltà: persone forse "difettive, abnormi, scalene" ma di certo piene di una vita propria, corsa su strani solchi, segnata ma non corrotta dal lager né dalla civiltà che lentamente andava riformandosi in direzione di un avvenire asettico e surrettiziamente brutale.
"I mesi or trascorsi, pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino".
Primo Levi
Torino, 31 luglio 1919 - Torino, 11 aprile 1987
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