Roger Nelson è oggi vittima, nonostante recentemente abbia dato segni di vita, di una rimozione che ha del sorprendente, considerato il valore del personaggio; ma non è del tutto inspiegabile, se aggiungiamo alle sue mattane e ad un certo autolesionismo, il fatto che viviamo una fase in ambito Black, e non solo, di avvilente omologazione.
Il "principe" degli anni '80, periodo che viene descritto, non sempre a torto, come di riflusso neoconservatore, riuscì a salire al trono con atteggiamenti in controtendenza, free, anticonformistici, politicamente scorretti, soprattutto con l'esaltazione ossessiva del sesso, "sporco", quasi pornografico, ma venato, in taluni episodi, di un personalissimo romanticismo.
Certo, i primi album avevano già fatto intendere a chi aveva strumenti adeguati per comprenderlo che ci si trovava di fronte ad un talento puro, sia come musicista che come cantante, ma l'accoglienza per essi fu piuttosto fredda, sia da parte della critica che del pubblico. Altri dotati di minor personalità avrebbero cambiato strada di fronte a quell'insuccesso, rapportato soprattutto alle grandi aspettative di un ego sproporzionato o, almeno, aggiustato un po' il tiro. Invece, Prince tenne duro, rendendo solo un po' più diretta quella formula funk+pop+rock, facendone un vero marchio di fabbrica, e riuscendo con "1999" a raggiungere per la prima volta il grande pubblico, e, cosa ben più importante, a dare inizio a quella serie di masterpiece che avrebbero segnato quegli anni e la storia della black music moderna.

L'album doppio si sarebbe dovuto chiamare "The Revolution", con una copertina rosso porpora da far invidia ad un cardinale. Così non fu; però, "la Rivoluzione" e il "Purple" non andranno perduti: li ritroveremo due anni dopo nel lavoro che forse esprime meglio la sua idea di black music, in quell'apoteosi sotto l'acquazzone colorato, tra assoli di sapore hendrixiano.
"1999" è opera piuttosto atipica per il pop. Non solo doppio album, ma molti dei pezzi superano i sei minuti e tre durano addirittura intorno ai nove: un'eternità per le radio dell'epoca; ciononostante, la title track e "Little Red Corvette" non faticheranno ad imporsi. Il piccolo-grande principe di Minneapolis, novello Giano, riesce a guardare, simultaneamente, al passato e al futuro, senza cadere in malinconiche nostalgie né cedere ad insensati modernismi. In tutti i brani dell'album è questa la caratteristica che emerge maggiormente, il suo saper essere consapevole "cerniera" tra tradizione e innovazione, insieme a quel suono della drum machine, quel beat che il grande Miles non esitò a definire il "ritmo di Prince".

Gli episodi più significativi dell'album sono quelli più funky, come "Automatic", "D.M.S.R.", "Lady Cab Driver", nei quali il ritmo sale, l'atmosfera si fa incandescente, in cui quel battito frenetico fa da colonna sonora alla pazza festa per un finale di secolo sul quale, però, si immagina incombente l'apocalisse atomica ("Mommy, why does everybody have a bomb?", si dice nella title track). Anche quando le luci si abbassano, l'adrenalina cala, ai gemiti di piacere (quante donne partecipano al "coro" ! Jill Jones, Vanity, Wendy, Lisa...) si sostituiscono i sussurri, come in "International Lover" o in "Free", il nostro mostra di disimpegnarsi da par suo, mettendo in mostra una voce inimitabile e duttile ed attingendo ad un repertorio più classico. Ma il brano che spicca di più, quello che dà più chiara l'idea di trovarsi di fronte ad un genio nel suo campo è "All The Critics Love U In New York", brano di modernità estrema, che potrebbe dare non pochi spunti ai tanti, troppi, che in quell'ambito non riescono a trovare più uno straccio d'idea.

Prince ormai è stato detronizzato; è ritornato ad essere il sig. Roger Nelson. Ma è tra i pochi negli ultimi vent'anni a non poter essere considerato un usurpatore, ad aver indossato con piglio regale quei gioielli di cui abbondano, in modo pacchiano, troppi suoi presunti successori.

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