Se Dirty Mind è l'album più erotico di Prince, Controversy ne rappresenta invece il disco più "politico": in modo diverso l'una dall'altra, almeno 4 canzoni presenti affrontano temi che escono deliberatamente dal "pensiero dominante" che aveva contraddistinto i dischi precedenti (il sesso, naturalmente, e le vicissitudini amorose) per affrontare tematiche nuove, insospettabili fino al momento prima. Forse per questo motivo, l'intero album appare più interessante da un punto di vista concettuale, piuttosto che musicale. Esemplare è il caso della title track: basata ancora una volta su una struttura funk, "Controversy" è lontana anni luce dalla rilassata atmosfera di Dirty Mind. È anzi un brano quasi minaccioso: i giri di chitarra e le tastiere sono stridenti, chiusi e in tutto il pezzo la parte percussiva, rinforzata da ripetuti "uuwh" della voce, suggerisce l'idea di pugni allo stomaco, mentre Prince si chiede stupito come mai ci sia tanto clamore attorno a lui. Idealmente, la canzone è divisa in tre parti: all'esame iniziale delle controversie sollevate ("sono bianco o nero, etero o gay?"), segue la recita del padre nostro (!), e, infine, una netta dichiarazione di intenti ("vorrei non ci fossero bianchi e neri, vorrei non ci fossero regole"). Nello spazio breve di una canzone il nostro ha messo sul piatto le questioni principali che saranno d'ora in poi sempre presenti nei suoi testi: la forza liberatrice del binomio sesso/amore, la convinzione di avere dio dalla propria parte, e il messaggio di emancipazione che scaturisce da tanta consapevolezza.

Insisto ancora un po' sul significato di "Controversy": la curiosa teologia princiana, che trova il suo culmine filosofico in Lovesexy (con l'equazione God=Love), a me è sempre parsa un elemento che Prince considerava molto seriamente nella sua musica, e non un giochino per suscitare polemiche e far parlare di sé. Ebbene, quella teologia è già interamente presente in questo pezzo e nell'intero album, come dimostrano i due brani successivi. "Sexuality" esprime, nella stessa velocità della musica, l'urgenza del messaggio: è, più di ogni altro, letteralmente un inno, un incitamento. Si rivolge direttamente alla schiera dei suoi seguaci, che appaiono come gli eletti di una nuova, carnale religione, e prende di mira i possibili colpevoli dei mali della società, bollandoli come "turisti", che spiano il mondo dal buco della serratura di una telecamera, e crescono figli nella repressione sessuale. L'esito di tanta foga polemica è però, in modo che può sembrare incoerente, la stratosferica celebrazione dell'eros, rappresentata da "Do Me Baby": una ballata così splendidamente kitch, (e a tratti imbarazzante, anche per i fan più accaniti) che solo Prince avrebbe potuto interpretare in modo convincente. Negli anni Settanta si diceva che il privato doveva essere subordinato al politico. Prince risolve la questione mescolando continuamente i due piani: così, alla fantasia masturbatoria di "Private Joy", che possiede una melodia e una progressione a cui è impossibile resistere (con la chitarra costretta nel finale a produrre suoni inimmaginabili), fa seguito la filastrocca antisovietica di "Ronnie Tank To Russia", che musicalmente è un bislacco rock 'n roll con aggiunta di coretti e tastierine, il che conferisce al pezzo l'apparenza di una generale presa per i fondelli. "Let's Work" è il riemergere di contenuti vietati ai minori e di un funky ruvido e robusto - in cui si segnala il ruolo primario affidato al basso, con un breve accenno di simil-rap sul finale. Ma è il brano successivo che sbalordisce: "Annie Christian" è finalmente un pezzo in cui la maestria compositiva va di pari passo a un testo "importante". Si segnala come la prima canzone in cui Prince non appaia come protagonista, visto che tale ruolo gli viene usurpato da un'inquietante figura, una specie di sociopatica pluriomicida, che gira l'America spargendo sangue innocente e brillando del luciferino splendore dell'Anticristo. Attorno a queste liriche, Prince costruisce un tessuto musicale che evoca magnificamente il senso di smarrimento e di paura trasmesso dalle parole: i ritmi sono dissonanti, il cantato sembra leggermente fuori tempo rispetto alla musica, e la chitarra elettrica, che lavora lungo tutto il brano in modo sommerso e oscuro, esplode poi nel più bello degli assoli in cui finora il principe si sia prodotto. È quindi quasi con sollievo che il finale del disco lascia spazio alla leggera e pimpante "Jack U Off", col rassicurante ritorno a preoccupazioni più "terrene", ma anche, inevitabilmente, meno perturbanti e affascinanti della precedente.

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