Quando nel 1973 Marvin Gaye dette alle stampe “Let‘s Get It On“ si parlò dell’inedita e inaudita carica sessuale sprigionata dalle canzoni, intrise di testi che dal romantico/sentimentale si stavano spingendo sempre più verso l‘erotismo, anche se sempre lontano da riferimenti espliciti. Solo sette anni dopo, il terzo album di Roger Nelson - da pochi anni conosciuto col nome d’arte Prince - eliminò ogni pudore rimasto con un ciclo di canzoni selvagge e al limite del bollente. Se "Let’s Get It On" vi sembrava un titolo diretto per un disco, “Dirty Mind” come vi suona?

E’ un manifesto morale e musicale, quello della “mente sporcacciona” e del suo manuale di vita per sopravvivere nella giungla urbana dei primi anni’80 americani. Per darvi una coordinata siamo nell‘anno di “1997 Fuga Da New York” di Carpenter, quando le febbri da sabato sera e l’aria da good times sono state archiviate da un pezzo, e lo scenario che si ha davanti è tutt’altro che confortevole, anzi. Risuonano nei negozi i primi singoli dei Duran Duran, alle feste gli Chic cominciano a essere accantonati per i Cure, sta diffondendosi un‘oscurità che porta più a riflettere che a far ballare. Ma come noi sappiamo proprio quel clima di incertezza da inizio decennio post-punk/post-disco porterà a una stagione felicissima che per quasi un lustro farà sfornare capolavori incredibilmente innovativi.
E’ in questa stagione che Prince emerge, dopo un paio di ingenui tentativi (“For You” e “Prince”) di risuscitare un disco-funk che ormai appariva trito e logorato da una sfrenata e distruttiva commercializzazione. Roger ci aveva comunque creduto molto nelle sue opere prime, e la delusione sua e della Warner per i quasi-flop precedenti è determinante nella maturazione della nuova scelta dell’artista: realizzare un 33 completamente suonato in solitudine, lui, gli strumenti (superfluo dire che è un completo polistrumentista) e un rudimentale sedici piste. Prince svuota i rubinetti delle proprie sensazioni con una crudezza istintiva che né lui né altri avevano avuto fino allora. Spinto da insoddisfazioni sentimentali, professionali e sociali il nostro 23enne decide di reagire con le unghie, graffiando e affrontando di petto le proprie inquietudini.

L’atmosfera che si respira è nera, ma intesa più come “dark” che come “black”. Tutto è scarno e immediato, come nella magnifica copertina in bianco e nero, che vede il Roger in primo piano con addosso solo una giacchettina fricchettona e le braghe, sguardo orgoglioso davanti a un letto rovesciato (la rete del materasso dà anche un che di psychedelico all’ambiente), come fosse un ritratto di se stesso. L’immagine sfrontata di un giovane che nell’angoscia generale sfodera un approccio singolare: vivere la vita selvaggiamente, facendo dell’amore e soprattutto del sesso uno scopo di gioia, una merce di scambio tra vittime della società, dedicandosi alla musica e alla donna come fini ultimi per sentirsi vivo.

Da qui un viaggio molto breve, otto canzoni soltanto che comunque bastano per l’iniziazione. Anche Lets Get It On aveva solo otto canzoni, e non solo per tendenza discografica, ma perché i brani sono delle vere bombe, dei rompighiaccio che devono essere presi a piccole dosi.

L’apertura è affidata al funk robotico della title-track, dove già il ragazzo agogna a farsi una sbarbina nella macchina del padre di lei... e abbiamo appena cominciato. Nel susseguirsi delle tracce vedremo scene di incesti punk (“Sister”), jam danzerecce come in “Uptown” (dove il nostro in breve incontra una tipa per strada e dopo pochi istanti lo troviamo a dimostrarle “che non è gay”), splendide ballate new wave come l‘ultracoverizzata “When You Were Mine” (forse l’unico pezzo veramente dolce e fragile). Ovviamente la più scorretta è la mitica “Head”, cioè “Pompino”, un funk piccantissimo dove il nostro eroe approfitta di una sposina ancora vergine ma esperta in pratiche orali. Il mondo della musica nera avrà bisogno di anni per riprendersi da questi trenta minuti di geniale delirio.

Musicalmente Prince scardina così il filone moribondo del soul anni’70 creando un rinnovato suono funk, più sporco, essenziale, ma pieno di effetti (da ricordare l’ampio spessore dato alle tastiere) e adattato ai tempi che cambiano. Dimostra inoltre di essere un ottimo chitarrista dotato di una tecnica pulita, secca originale; e di sapersi gettare con disinvoltura in generi fino allora custoditi gelosamente dai “bianchi”, forgiando incredibili meticci rock.
“Dirty Mind” sarà sostanzialmente l’ennesimo flop commerciale, ma anche il suo primo capolavoro. E le orecchie più attente non tarderanno ad apprezzare il neonato “Minneapolis Sound”, preludio alle cavalcate sotto le piogge di porpora.

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