Quando si parla del Principe c’è sempre qualche difficoltà in più....: primo perché è complesso parlare di un musicista che si è amato alla follia in gioventù, secondo perché la discontinuità, e francamente l’eccesso della sua produzione non possono certo portare a giudizi sereni, sbrigativi e soprattutto definitivi. Domani può saltar fuori con un disco bellissimo, bruttissimo o (come è troppo spesso accaduto nel recente passato) del tutto inutile.
Allora parliamo di un campo neutro ed assolutamente indiscutibile: il live. Che il piccolo Genio di Minneapolis sia un vero animale da palcoscenico credo non possa essere messo in dubbio. Da sempre (la sua prima documentazione live ufficiale, in vhs, risale al tour di “Purprle Rain”) quando lui sale su un palco quella che trapela è energia pura, libidine assoluta. Quello che riesce a fare e soprattutto quello che riesce a far fare ai suoi musicisti è assolutamente strabiliante.
Il suo controllo delle band è perfetto e assoluto, pari forse solo ai grandi direttori d’orchestre jazz o a quella manciata d’anni nei quali James Brown era al massimo della forma.
Ma, come sappiamo, in Prince non ci sono, benché presentissimi, solo James Brown e il Jazz. In questo diavolo che spesso parrebbe meritarsi un esorcismo ci trovi Santana, i Beatles, Sly Stone, quasi tutta la scuola disco anni ’70 (Chic in primis), ci trovi la retorica di certi Queen, la libidine cantautorale di Joni Mitchell, i deliri chitarristici di Hendrix e tanto, tantissimo funk.
Dunque si potrebbe pensare a uno scopiazzatore professionale. Naturalmente no: il Prince migliore è un grandissimo cuoco, un eccellente miscelatore d’ingredienti e condimenti, e spesso questa sua meravigliosa caratteristica è impercettibile, o quasi, nei prodotti in studio successivi a “Lovesexy”, così barocchi e strapieni di roba inutile e ridondante, così autocompiaciuti. Spesso vere seghe musicali, con pregi e difetti delle migliori/peggiori masturbazioni, con momenti altissimi alternati a momenti di stanca, con qualche soddisfazione e qualche senso di vuoto...
Ed ecco allora che, dopo molti documenti video ma nessun disco ufficiale, nel 2002 arriva (a quasi venticinque anni dagli esordi) il primo disco live. Ed arriva in un momento non certo felicissimo: i dischi in studio ormai vendono solo agli appassionatissimi e, in particolare l’ultimo, “One Nite Alone”, un disco bello e intimista per voce e piano e pochissimo altro, non è neppure arrivato nei negozi ma si trovava, legalmente o meno, solo in rete. Poi, come sappiamo, con un disco modestissimo come “Musicology” ma una buona opera di marketing tornerà in auge (abbastanza e temporaneamente). Ma nel 2001 la situazione è quella.
Ma, parlando di Prince, anche lì la cosa è “strana”: dischi invenduti e concerti sempre “sold out”. E come mai ? Perché gli appassionati di un vero animale da palcoscenico non mancano mai, evidentemente, e perché la possibilità di sentire qualche grande classico “live” attira sempre.
In questo disco ufficialmente doppio, ma che in nell’edizione migliore ha un terzo ciddì registrato in uno dei classici “aftershow” che il principe ama fare a sorpresa e spesso in locali fighettissimi delle grandi città, troviamo grandi classici a fianco di brani sconosciuti ai più ed a qualche inedito. Insomma, un distillato di Prince che non può mancare in una casa ove si amino funk e jazz. Nella banda suonano, ovviamente, tutti da dio, ma una lode particolare (e ovvia) va all’immenso Maceo Parker, ovvero il Mastro Don Sax Contralto del funk, che suona con immutata libidine e si lancia anche a rappare (meglio a funkrappare….cosa che fa spesso e splendidamente anche nei suoi dischi solisti, che meriterebbero qualche attenzione).
Prince suona tutto (benissimo), fa assoli di chitarra strabilianti e si accompagna al piano con una perizia davvero invidiabile. Poi da sfogo ai noti falsetti e al suo modo del tutto caratteristico di coinvolgere il pubblico.
Chi (come me) questo tour l’ha visto a Milano, sa che sono stati abbandonati i lustrini che caratterizzavano gli show degli ottanta, che non c’erano praticamente effetti speciali ma soltanto bellissime luci, e che i musicisti tutti (lui per primo) si presentavano in scena elegantissimi e vestiti di nero.
Per chi poi considera, come il sottoscritto, “Parade” la miglior opera princiniana di sempre, il momento di pura commozione arriva con “Sometimes It Snows In April”, ballata splendida che coronava un film quasi inguardabile come “Under The Cherry Moon”. “Splendido” di fianco a “inguardabile”…? Certo, sennò non sarebbe Prince.
Mentre qui, in questo live, si gusta tutto, dall’inizio alla fine, con libidine estrema e crescente, come non accadeva da moltissimo e come (finora) non sarebbe accaduto più.
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