1984, USA: il luogo e il tempo di Springsteen, e del suo ritorno col blockbuster “Born in the USA”, culo inguainato dai jeans in copertina. Arriverà al primo posto, certo, ma ci rimarrà per poco a causa dell’arrivo di un inatteso concorrente: a inizio Agosto la Warner pubblica i nuovi 45 minuti di Prince, titolati “Purple Rain”, che accompagnano l’omonima pellicola. Risultato? Prince scalza Springsteen dalla vetta e vi si piazza per molto, molto tempo e il film omonimo entra nell’immaginario collettivo, e frutta al genietto un Oscar per la miglior canzone, “When Doves Cry”. Perché? Perché Prince è riuscito con questo album in cotanta impresa, a scalzare il working-class hero d’America dalle vette delle classifiche?

Perché il suo album è, se possibile, più americano, rock e catchy di quello di Springsteen, pur essendo sperimentale, intarsiato com’è di funk, LSD e new-wave, oltre che personalissimo: vi sono insomma tutte le sue fissazioni, dalla religione al sesso, alle ballad in cui si prostra ai piedi della sua amata. Basti pensare a quel capolavoro che è “When Doves Cry”: un singolo stravenduto, sta-ascoltato eppure senza una linea di basso, e con un intro di chitarra che tutto è fuorché pentatonico, con delle tastiere gelide e melodrammatiche tipiche della new-wave, una struttura sghemba e caracollante e un suono assolutamente scarno e minimale. Eppure, orecchiabilissimo, un successo. E “Take Me With You”? Una ballad psichedelica con le chitarre acustiche in bella mostra, ed una struttura semplice semplice; e poi c’è l’opening track, “Let’s Go Crazy”, ovvero Hendrix lisergico al cubo che incontra i Devo (e pensare che nel film in mezzo alla canzone Prince ci piazza un assolo di pianoforte dissonante); c’è poi l’ariosa, allucinata e strappamutande “The Beautiful Ones”, dove Prince fa sfoggio di tutte le sue qualità canore per regalarci una dichiarazione d’amore assolutamente drammatica; e poi la quasi-strumentale “Computer Blue”, racconto psichedelico dei problemi che Prince ha con un robot (è facile intuire, visto il personaggio) dalle funzioni sessuali. Vi sembra abbastanza? Oppure vi sembra non ci sia abbastanza sesso, sconcezze, pornografia estrema in quest’album del nostro? State pensando “ecco, per entrare nelle case delle allegre famigliole americane, si è auto-censurato… ”. Avete presente le scritte “parental-advisory”? Ecco, “Darling Nikky” ne è la causa. È la storia di un incontro sessuale sconvolgente (“my body will never be the same”) tra Prince ed una prostituta (nella quale addirittura alcuni hanno visto il diavolo) che si sta masturbando nella hall di un hotel, il tutto declamato tra urli e gorgheggi di natura orgasmica. E poi, c’è il funk tiratissimo e stringato di “I Would Die For You”, su un testo dalle pretese sessual-religiose e “Baby I’m A Star”, inno a se stesso e all’arrivo del proprio successo, che convince una volta di più sulla duplice natura di questo album: ennesima tappa sul percorso sperimentale del Principe e macchina sforna-singoli pensata per vendere. A chiudere, un pezzo storico, un omaggio sentito e brividifero al maestro, Jimi Hendrix: la title-track, “Purple Rain”, lunga litania in Do tra archi e pianoforte, con incredibile coda chitarristica. Un pezzo di storia del rock.

C’è tutto, troppo in Purple Rain: 45 minuti che sono un omaggio a due delle influenze più forti del Principe, cioè la psichedelia anni ’60 (vedi l’allora prossimo venturo “Around the World in a Day”) e l’hard-rock-blues di Hendrix, con lo sguardo buttato alla new-wave coi suoi arrangiamenti minimali; il tutto mischiato in modo tale da essere facilmente digirebile al grande pubblico e graditissimo alla critica, roba che riusciva giusto ai Beatles. Un grande album, insomma, un gradino sopra “1999” e “Dirty mind”; forse superato giusto da “Sign ‘O the Times” … Ma questa è un’altra storia…

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