Linee geometriche taglienti, estetica asciutta senza concessione alcuna ad inutili fronzoli.

Si lavora in detrazione.

"Less is more" diceva Ludwig Mies van der Rohe che considerava l'architettura "nella sua forma più semplice, come ancorata a considerazione assolutamente funzionali".

Così fanno i Prinzhorn Dance School, elaborando un concetto di musica di brutale semplicità, debitore di un'estetica post-punk e no-wave auto indulgente, che non lascia via di scampo. Un concetto di musica dove i vuoti contano più dei pieni: basso ipnotico come linea guida, batteria metallica martellante, chitarra obliqua tagliente e a tratti  accenni blues viscerali. Le due voci di Tobin Prinz, alla chitarra e Suzi Horn, al basso, come slogan si alternano in brevi semplici fraseggi, elegantemente schizofrenici, ma a modo loro melodici: vi capiterà infatti già dopo il primo ascolto, di canticchiare qualche loro pezzo, perché non difetta certo di appeal e di ritmo  questa scuola di danza (primitiva), targata Prinz&Horn...

E così come l'architettura per Mies Van der Rohe, "può ascendere attraverso tutti i livelli di considerazione fino alla più alta sfera di esistenza spirituale, nel regno della pura arte" anche qui la musica, scarna, basica e spogliata di trucchi elettronici si sveste ed aspira ad essere arte: minimale, brutalista ed in bianco e nero. L'album, pubblicato nel 2007 e targato DFA (etichetta newyorchese specializzata in dance-punk, elettronica e disco) si apre con una linea di basso ipnotica; due note ripetute per più di mezzo minuto che fanno da apripista ad una batteria dall'incedere marziale e da una chitarra che disegna le melodie oblique di Black Bunker, apripista dell'omonimo primo album d'esordio del duo (trio dal vivo) inglese.

In totale si alternano 16 pezzi (quasi tutti sotto i tre minuti) che disegnano scheletrici quadri metropolitani dell'odierno vivere, sotto forma di scatti fotografici in bianco e nero. Le canzoni, come foto. I luoghi su cui si fissa l'obiettivo sono le aree industriali dismesse, i centri commerciali desolati, le toilette pubbliche, le case con l'intonaco scrostato. Luoghi senz'anima in cui s'incontrano e si alternano le figure della vita di tutti i giorni come il macellaio ed il panettiere di  do you know your butcher, o il lavoratore alienato di You are the worker, si eseguono i gesti quotidiani, divenuti robotici di Eat, sleep ed all'orizzonte si avvicinano minacciose, le archetipiche figure eighties di un'era videogame che fu: you are the space invaders e Spaceman in your garden.

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