Come facciamo il nostro ingresso nello studio clandestino di Psapp aka Carim Clasmann e Galia Durant, ci ritroviamo in un vero e proprio universo parallelo; un universo - seguendo i discorsi di Carim - divertente e miracoloso.

Ci viene ad aprire un'androide donna che, con la sua voce suadente e graffiante al tempo stesso (ci ricorda la Manson dei Garbage) ci accompagna in questa visita ("Hi"). Poi ci fa accomodare sul divano. Nel frattempo viene Carim, che era in un'altra stanza. Si presenta, poi va a mettere un disco sul suo grammofono e torna da noi, sedendosi vicino a Galia. È lei che parla; è lei che inizia a raccontare la loro storia.
Lo fa, misurando le parole; come se ogni frase fosse una sentenza, d'amore o di morte, mentre dal grammofono esce un suono di altri tempi; un jazz d'appartamento; Diana Krall che suona una tastiera Casio ("Hi").

Apprendiamo che la madre di Galia colleziona canzoni di protesta; che il padre ha una conoscenza enciclopedica della musica indiana; mentre Carim ha passato la giovinezza nei bassifondi musicali di Colonia, prima di trasferirsi qui, a Londra. Si sono incontrati attraverso amici comuni, che avevano gli stessi loro gusti musicali: Tom Waits, Cure, Erik Satie, Duke Ellington e, in generale, .

Ci dicono che stiamo ascoltando il loro secondo disco, "The Only Thing I Ever Wanted", che sarà pubblicato dalla Domino Records, ma che è fatto artigianalmente, con quello che avevano in casa; cercando di non fare troppo rumore, per non spaventare i vicini; perchè non chiamino la polizia, che già vuole sfrattarli. Accenna ad un brano, "This Way", un bric-a-brac di suoni misteriosi, che si sgretolano in una canzone primitiva ed ipnotica.

Poi torniamo a parlare di nuovo di loro; della loro storia d'amore, tra giocattoli antichi ("Tricycle") e bambole di porcellana. Ad un certo punto ("Needle and Threat") Carim si mette a battere sul tavolo, sul bracciolo del divano, su quello che trova; mentre Galia accompagna la musica con le parole. Ne risulta un suono simile alle percussioni dei Liars. Ancora una frase da ricordare:

Carim si alza, controlla che il grammofono sia a posto; poi prende dal muro un vecchio strumento, una specie di corno, e comincia a suonarlo. Galia si alza anche lei e, non appena partono gli archi di "New Rubbers", inizia a danzare, accompagnando il ritmo con le dita. Al secondo attacco d'archi, invita anche noi ad alzarci e a ballare. E noi non possiamo resistere, perchè tutto si trasforma: la loro casa diventa um microcosmo magico, dove i giocattoli antichi e le bambole di cera prendono vita.

È come se nella stanza ci fosse racchiuso tutto il mondo. Carim non riesce a fermarsi; prende in mano un portacenere metallico ed inizia a sbatterlo ritmicamente sul tavolo di legno e sulla sua mano. Dopo qualche altro attimo, bellisimo ed eterno, torniamo a sederci e ripartiamo dall'inizio ("Hill of Our Home"). ci dice . Poi, però ci pregano ("Eating Spiders") di non parlare a nessuno del loro lavoro; facendoci capire che vorrebbero rimanesse una cosa tra noi e loro; una cosa tra amici.

Alla fine della serata, ci ritroviamo interdetti in Kings Cross. Ci guardiamo l'un l'altro per capire cosa è successo. Il disco ci è parso qualcosa di tremendamente intrigante; un esempio più unico che raro di electronic pop; un'opera che sfugge ad ogni definizione.

Sforzandoci tramendamente potremmo pensare agli Stereolab di "Dots and Loops". Ci diciamo però che non abbiamo soltanto ascoltato un disco e parlato con gente; ci sembra, in qualche modo, di essere tornati da un'altra dimensione.

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