Gli Psychotic Waltz, originari di San Diego, possono essere sicuramente definiti i più sfigati musicisti progmetal che la storia del rock ricordi (ops, volevo dire che la storia del rock ha dimenticato). Infatti, il loro debutto di tutto rispetto "A Social Grace", datato 1989, venne pubblicato su un' etichetta indie tedesca (Rising Sun Records), ben presto fallita, poi questo "Into The Everflow" venne pubblicato da un'altra etichetta indie tedesca (Dream Circle Records) che fallì anche quella. A concludere la sfiga, se questa vi sembra poca, il chitarrista e pianista leader Dan Rock, precipitò da un ponte e dovette sostenere il piccolo tour promozionale per il disco in questione seduto; dall'altra parte l'altro chitarrista Brain McAlpin era anche lui reduce da un precedente incidente autostradale ed era relegato su una sedia a rotelle.
Sfiga magistrale a parte, gli Psychotic Waltz sono validi musicisti che propongono appunto una sorta di prog metal che miscela psichedelia, atmosfere asfissianti e angoscianti, suggestione e poesia che prendono ora la forma di arpeggi delicatissimi e assoli ipermelodici e ora di potenti e massicci riffs e di ritmi tribali suadenti e magnetici. Registrato in Europa, precisamente in Germania, dopo sessions estenuanti in un vecchissimo castello medievale in cui il gruppo decise di andare a vivere - furbescamente direi - durante il freddo inverno del 1992, "Into The Everflow" è lavoro più complesso, oscuro e finemente elaborato del precedente, sicuramente in primis maggiormente compatto, teatrale a tratti e soffice in alcuni suoi momenti.
"Ashes", il brano semistrumentale di apertura, è un ottimo biglietto da visita per i nuovi Psychotic Waltz, che scelgono di tessere linee melodiche magicamente spettrali grazie ad un pomposo e trionfale intro di archi che creano una climax eterea e angosciante fino all'arpeggio delicato di Brian McAlpin e alla marcetta di Leggio e all'esplodere malvagio delle chitarre distorte. "Ashes" è un frammento di cielo sereno e soffice squarciato inesorabilmente da un fulmine che anticipa solo una imminente tempesta; è un tappeto melodico, un' affresco sonoro che si addice poi perfettamente alla linea vocale squisita di Buddy Lackey, che mi ricorda personalmente in questo pezzo la voce di David Bowie.
Tempesta che arriva inesorabile con le folli e psicotiche danze di "Out Of Mind" e "Tiny Dreams", in cui la frenesia e l'irruenza nuda e cruda delle chitarre creano un groove acido e spigolosissimo che diventa sempre più isterico e teso fino allo spasimo, soprattutto in virtù dei sussulti e degli stacchi improvvisi che le animano, sembrando quasi pungolarci fastidiosamente come animali stretti nell'angolo, senza via di uscita.
Segue la vera perla del platter, la title track "Into The Everflow" psichedelica e melliflua, in cui un malato intro arpeggiato, e la voce quasi sussurrata, serena ed impalpabile di Lackey, l'esplosione delle due chitarre che si avvolgono tenacemente fino alla morsa più stretta fino a liquefarsi nell'assolo centrale per poi trafiggere carni molli come crudeli assassini con il loro riff nervoso nella chiusura del brano e la puntuale e cadenzata soluzione ritmica del basso di Evans e della batteria di Leggio creano un piccolo scrigno di sensazioni bellissime, fluttuando tra un onirismo stupendo eppur oscuro e un realtà decisamente sfumata eppur così potentemente diretta.
Isterica scossa prima del meritato riposo arriva dall'ascolto di "Little People" che verte su un riff inquietante e un lavoro magistrale di Leggio dietro alle pelli, che creano un'atmosfera claustrofobica, un groove al cianuro che i vocalismi imprendibili di Lackey rendono ancora più malate. Meritato riposo che arriva con la dolcissima acustica "Hanging on a String", una vera poesia che culla e regala emozioni ad ogni ascolto.
Chiudono il platter la granitica e incalzante "Freakshow", quasi un pugno nello stomaco in cui Lackey si supera passando da acuti impossibili e acidissimi a sussurri dolcissimi e la cattivissima "Butterfly", altra perla immensa del disco, in cui Lackey e Rock si tramutano in percussionisti per la sezione centrale di un brano imprevedibile nella sua evoluzione, quasi un cuore estirpato furiosamente che vive di scosse ( a parte la citazione di "Purple Haze" di Hendrixiana memoria e di "Aqualung" dei Jethro Tull, il cui Ian Andersson è cantante preferito di Lackey).
Scusate la prolissità e grazie.
See Ya!
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