Nel 1981, dopo l'abbandono da parte di Jah Wobble, dopo aver assunto il nuovo batterista Martin Atkins al posto di Tim Walker, i P.i.l. di John Lydon pubblicano "Flowers Of Romance", un disco di un'angoscia soffocante. Niente più ritmiche disco-funk, niente più basse frequenze dub, la musica concepita stupisce per quanto è scarna e scheletrica: il terzo disco della band inglese è basato infatti quasi totalmente sul sinistro connubio fra le percussioni selvaggie di Atkins e il cantato straziante di Lydon, con diffuse contaminazioni etniche, clangori industriali ed elettronici.

Tutto è chiaro fin dall'inizio, con la claustrofobica "Four Enclosed Walls", con una batteria balbettante e rintronante che fa da unico accompagnamento ai lamenti di Lydon ("only ending is easy / burn, burn, burn"). Agghiaciante. Il secondo brano, "Track 8" è un vortice vertiginoso in cui la batteria tiene in continuazione un tempo dispari e tutti gli altri strumenti suonano ossessivamente la stessa nota. Ma dal terzo brano in poi, si manifesta la vena etnica e sperimentale assunta dalla band in questo album: "Phenagen" - che ruba il nome ad una marca di psicofarmaci - è una marcia a suon di tamburi dell'estremo oriente, campanelli e archi cinesi. Vengono in mente riti religiosi e dragoni ai piedi di una pagoda, mentre Lydon recita le seguenti parole: "Empty promises help to forget / no more, no more / repair the damage you made / amen amen.". Promesse vuote, dimenticanza, danno. Testi oscuri e alienati, perchè questo erano i P.i.l..

I Sex Pistols e il punk del'77 erano stati uno sputo in faccia al sistema, un rifiuto fine a se stesso, dettato dalla semplice incapacità di accettare qualsiasi schema o ordine. I P.i.l. fecero tutt'altro: l'obiettivo non era più puntato sul sistema; la loro musica era uno sguardo impietoso dentro sè stessi, e tutto ciò che l'occhio riusciva a scorgere erano disperazione, apatìa, isolamento, dolore. E la forma con cui scelsero di denunciare questi stati d'animo fu tra le più originali dell'epoca. Già il precedente "Metal Box" (o "Second Edition") era un cavernoso abisso nella psiche, ma con "Flowers Of Romance" i P.i.l. raggiunsero forse il loro culmine creativo, basti ascoltare il brano che dà il titolo all'album, una danza pellerossa lacerata dai lamenti di un volino elettrico, o "Under The House": un testo spettrale ("it came out of the wall / a single cadaver / it went under the house / scream in the trees / under the moon"), tribalismi ossessivi e gotiche folate orchestrali. Le stesse folate presenti nella strumentale "Hymie's Him", con percussioni di Bali e una batteria agonizzante, che sembra sempre per dare il battito finale, ma che continua imperterrita. Ma forse il miglior brano del disco è "Banging The Door": una marcia paranoica pervasa da un sordo e cupo rumore di fondo, che si insinua nel brano come una nebbia malata e oscura penetra in una stanza da sotto la porta.
Ancora un brano, l'anemico e ritmato "Go Back" per arrivare al conclusivo delirio finale, "Francis Massacre", anarchico e sconvolgente, senza ritmo, senza ordine; solo caos, rumori e urla isteriche; ultimo atto di un'esperienza inquietante.

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