Il nome originale del disco ("Metal Box") deriva dalla confezione di metallo circolare nella quale veniva venduto l'album subito dopo la pubblicazione, 'scatola metallica', un aggettivo, un concetto che racchiude perfettamente l'atmosfera che si respira durante i 50 minuti di questa piccola opera decadente ed oscura.
'Post-punk', questa la definizione che i critici hanno coniato per definire il sound rabbioso ma sperimentale ed alienato dei Pil, un immensa orgia minimale di suoni e tintinii, dove il punk viene rivisitato dallo stesso pazzoide artista che lo aveva portato alle masse pochi anni prima (John Lydon, ex Johnny Rotten), sventrato, ne viene estratta l'anima pulsante, la quale viene impiantata in un contesto differente, permane la furia, la sensazione di disagio, viene meno la voglia di ribellione, l'indole sovversiva lascia spazio ad una mentalità fatalista e 'di abbandono', della quale lydon si eleva a profeta.
Premuto il tasto play, parte la prima traccia, "Albatross", ed è già capolavoro: basso insistentissimo ed in prima linea, batteria jazzata, chitarra effettatissima e distoria, lydon che declama con tono funereo versi di dannazione e follia. Sembra di essere rinchiusi nella 'metal box', e ci si ritrova a vagare senza una meta, alla ricerca di qualche segnare che indichi un minimo di razionalità, e invece si prosegue tra le note taglienti e distorte della chitarra, martellati dai colpi del basso, che come un colpo alla nuca fa perdere qualsiasi cognizione di tempo e spazio, ci si ritrova a barcollare completamente disorientati.
Dopo otto minuti di visionaria follia il male sembra passato, ma "Memories" è lì, sulla falsariga della prima traccia, con la voce di Lydon ancor più disordinata e pazzoide, accompagnata dalla solita orgia di rumori e pulsazioni e da un motivetto alle tastiere che ci conduce ancor più verso l'ignoto. E' buio, ora, nella metal box, ancora rintronati per i colpi subiti siamo costretti a camminare aiutandoci con le mani, ma il pavimento è ricoperto di chiodi e cocci di vetro, i quali si insinuano nella nostra carne e dilaniano nervi e convinzioni, è il momento di "Swan Lake".
Qui irrompono prepotentemente percussioni industriali, che come sassate lapidano le orecchie e le sinapsi, e sembra di camminare lungo le fredde e sconosciute mura della metal box, il basso è sempre lì, non smette mai di pulsare, neanche per un secondo, non lascia un attimo di tregua, neanche quando ormai il brano sembra volgere al termine, in un esplosione violenta ed irreale.
"Poptones" riprende le cadenze industriali della traccia precedente ampliandone gli orizzonti e distruggendo qualsiasi argine, è così che una valanga di campionamenti e suoni registrati e trattati investe la desolata metal box, che come una tromba d'aria, un onda anomala lascia solo devastazione.
La tortura prosegue però, nessuna pietà nella scatola di metallo, ed è così che feriti nella psiche e nel corpo ci si ritrova al cospetto di "Careering", straripante di influenze funk, un ritmo dub invade tutto, toglie il fiato, fa annegare l'anima e soffoca lo spirito. L'aria è quasi terminata, i primi sintomi dello svenimento si insinuano come scheggie sottopelle. Lydon questa volta non c'è, tutto è lasciato alla strumentazione, sta ai folli musicisti definire questo mosaico di distruzione e terrore, e lo fanno egregiamente 'condendo' il pezzo con un giro chitarristico acido e corrosivo.
Terminato il pezzo, "No Birds" è già nell'aria, e le cose sembrano andare meglio, la chitarra è meno filtrata del solito ed il basso sembra più calmo, ma basta aspettare qualche secondo perchè irrompa Lydon, in modo imponente e plateale, con la sua voce sgraziata. neanche un minuto e le corde del basso vengono nuovamente percosse con furia assassina.
Una spirale, è una spirale che appare nella fredda prigione metallica, che tortura, che stringe, che proietta nella mente immagini disturbanti e rende inermi e senza difese.
"Graveyard" è un mare di chiodi che spunta sulle pareti della metal box, chiodi che si avvicinano progressivamente ai nervi più reconditi del cervello, graffiano le membra con la cadenza da filastrocca del canto di Lydon, accompagnata da scomposte note di piano, che rimbombano qua e là rimbalzando sulle gelide pareti macchiate di sangue e lacrime.
La chitarra intanto partorisce una serie di feedback impazziti che aumentano il senso di destabilizzazione e di insicurezza rendendo ancor più difficile trovare un briciolo di coraggio per andare avanti.
"The Suit" è dominata dal dub-funk, la seicorde di Levene è l'assoluta protagonista. Gli accordi si susseguono e ci si ritrova ai limiti delle forze, senza la benchè minima convinzione nè speranza, ci si lascia trasportare dalla spirale oscura del poeta della paranoida Lydon, mentre il basso continua a distruggere ma allo stesso tempo a creare strutture soniche attorno ai freddi battiti della batteria, scomposta ma regolare.
"Bad Baby" arriva silenziosa, non si riesce a comprendere.. cosa è questo? forse un sogno? il basso è ancora lì, ma non pulsa più in modo assassino, una coltre di archi e contrabbassi ha preso il posto del teatro rumorista che fino ad ora aveva distrutto le membra e scorticato la pelle.
E' una bella sensazione, sembra di riuscire a scorgere guardando avanti qualche spiraglio di luce bianca, tonalità qui nella metal box ancora mai assaporata, si inizia a correre verso quella luce, radunando tutte le forze rimanenti, cadendo ma continuando a rimettersi in piedi, distrutti nel fisico e nella mente, si arranca verso l'unico punto di riferimento apparente. Gli archi accompagnano il cervello ormai lobotomizzato verso la speranza.
Si corre, sempre più veloci, ma ci si accorge che qualcosa non va, ad un certo punto inizia a farsi tutto ancor più buio, più oscuro, e ci si schianta un altra volta contro le impenetrabili pareti della metal box.. e si cade, e si affonda.. ed inizia "Socialist": una fredda mercetta dominata ancora una volta dal basso, che stordisce ulteriormente, che deteriora qualsiasi precedente tentativo di pensiero positivo, una danza primitiva impiantata nell'era delle macchine, dell'automatizzazione dell'uomo e dell'annullamento del pensiero individuale.
Distrutti dal rancore ma incapaci di realizzare qualsiasi pensiero di senso compiuto si arranca, si prosegue dopo essere stati feriti dalla cocente delusione della mancata redenzione e si arriva al cospetto di un immensa stanza, gelide luci si stagliano in cieli futuristici e malsani, neon e sirene annebbiano la vista, suoni ipnotici anestetizzano i timpani, è il cuore della metal box, dove tutto ha inizio, dove tutto ha fine.
"Radio 4" avvolge, deteriora ma al contempo culla quasi dolcemente nella sua atmosfera nevrotica e post-futurista, lydon intona una decadente ninnananna apocalittica mentre le forze abbandonano definitivamente il corpo maciullato e morente, il cervello invia ancora gli ultimi debili segnali, le gambe si atrofizzano contorcendosi, i gomiti si muovono sbattendo sul pavimento, gli occhi sbiancano, il viso si scava come una maschera di cera.
La scatola metallica ha vinto, ha consumato un altra vittima, il sistema automatizzato si nutre di anime e corpi, annienta il pensiero, annebbia la vista. Siamo tutti parte di un unica grande macchina, ognuno di noi è un cigolante ingranaggio, una fredda vite, un ruvido bullone, con il solo scopo di permettere alla metal box di vivere, di esistere, e di continuare a cibarsi delle nostre anime
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