Come succede per il vino, anche la musica è sottoposta a cicli di alti e bassi (nel suo caso creativi). E ogni tanto ci sono annate straordinarie che fissano i punti fermi della storia del rock, tali da definire decenni, inventare generi, perfezionando i tentativi abbozzati negli anni precedenti e influenzando gli sviluppi degli anni successivi.
Anni stile Re Mida, in cui sembra ci sia un meraviglioso fuido ispiratore nell’aria: basta riuscire a catturarlo o a respirarlo e ciascun artista può trovare la propria chiave di volta.
Ad esempio secondo me lo sono stati tra gli altri il 1967, il 1991 o il 1979. In quell’anno sono stati sfornati almeno 1/5 dei miei album preferiti: Unknown Pleasures/Joy Division, Three Imaginary Boys/Cure, London Calling/Clash, Highway To Hell/AC/DC, Y/Pop Group, Entertainment!/Gang Of Four, Off The Wall-/M. Jackson, 154 /Wire, L’Era del Cinghiale Bianco/Battiato, Drums And Wires/XTC e altri altri altri… tra questi c’è sicuramente il secondo album dei Public Image Limited, la band formata da John Lydon, ex Johnny Rotten & ex frontman dei Sex Pistols.
Dopo il drammatico scioglimento del gruppo che era stato uno dei fondatori del punk, tutto il mondo musicale del tempo resta a bocca aperta, curioso di vedere quale sarà la fine del nostro John. Le alternative erano A) distruggersi di droghe e morire come un barbone incompreso sbattendosene del mondo (vedi alla voce Sid Vicious) B) continuare sul filone punk cercando di tenerlo in vita ad ogni costo come una fede di vita, fino all’inevitabile inaridimento (vedi alla voce Ramones) C) portare la ricerca di nuove soluzioni musicali su un nuovo, ulteriore piano, in coerenza con il comunque glorificato passato di innovatore punk. E sarà questa appunto la strada intrapresa, mettendo su un gruppo di musicisti scarti di lusso di altre grandi band del periodo (su tutti il chitarrista, l’ex Clash Keith Levine).
Tutto inizia nel 1978 con il debutto First Edition, ideale punto di comunicazione/confronto tra la rabbiosità nichilista e urgente del punk e un approccio più diluito e fluido, una specie di dub ipnotico e rumoristico con sprazzi di ballabilità robotica che puzza davvero di novità, anzi di (quel che diverrà la) new wave. Ma la tensione tra queste due correnti viene risolta perfettamente l’anno dopo con Second Edition (inizialmente venduto in una scatola di metallo -fighissima- e per questo chiamato Metal Box). La sublimazione dello strano incrocio ci fa sembrare ovvio e coerente il percorso da Never Mind The Bollocks fino a qui: Lydon è incazzato come sempre nella sua angoscia esistenziale, ma anziché provocazione e strafottenza ormai predilige stile, ricercatezza e profondità.
La profondità si rivela nei testi come nel suono, caratterizzato da un tappeto di basso cavernoso e avvolgente (“A Forest” dei Cure sarà un figlio legittimo di questo stile) e batteria affilatissima (se si può capire, un incrocio tra quella dei Police e quella di Barry White) ma con lampi tribali alla Adam & The Ants. La chitarra ondeggia turbinosa creando duelli di scherma tra le varie distorsioni che (ascoltatelo se potete con le cuffie) arrivano da destra, sinistra, ovunque. E sopra a tutto questo c’è la voce/puntura del leader, tormentato ma lucido nel graffiare e tormentare ogni suono, ogni sentimento che gli capita vicino.
Se i Sex Pistols volevano lamentarsi distruggendo, i P.I.L. si lamentano riflettendo, sperimentando e ballandoci sopra al buio.
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