Per me è un autentico mistero. Ho cercato ovunque un'eccezione, tra le più oscure recensioni di losche riviste italiche e non. Niente da fare, non c’è. Eppure, ascolto musica da tanti, troppi anni, non posso essermi sbagliata così pesantemente.

La maggior parte dei dischi che amo ha buone recensioni, perdindirindina! Non li amo per questo, intendiamoci, ma rendermi conto che altri condividono quest’amore mi fa piacer, mi fa sentire "in famiglia"...

Ho amato gli Smiths di “The Queen is Dead” e i Cure di “Pornography”, gli Alice in Chains di “Dirt” e Captain Beefheart in “Trout Mask Replica”. Tutto roba da almeno quattro pallette, che cavolo. Ora, non sono certo infallibile, ma credo di riuscire a distinguere almeno le vere porcherie dai diamanti. Per dire, se ascolto Nick Cave preferisco “Tender Prey” a “Nocturama”. Non mi era mai capitato che un disco che adoro venisse stroncato così malamente da tutti, ma proprio tutti. Un plebiscito, una vagonata di guano che si è abbattuta su questo particolare oggetto. “That What Is Not” dei PIL sembra mettere d’accordo tutti i recensori: trattasi di cagata pazzesca. Nemmeno i New Kids On the Block sono stati mai trattati peggio. Noto anche che il guano non viene quasi mai motivato: si parla di mesto finale, canto del cigno, lavoro banale. Rapidamente, con disprezzo... come se non valesse nemmeno la pena parlarne.

Così, visto che evidentemente sono l'unica a pensarla diversamente, ho deciso di scrivermela da me, ‘sta recensione: l’ultimo disco in studio di John Lydon, uscito nel 1992 e dotato di una copertina fantastica quanto disturbante, secondo me è una meraviglia. Il marcio non ha mai cantato così bene, sembra un muezzin che grida dalla torre più alta di una centrale nucleare in fiamme. Nella sua voce odio, sarcasmo, isteria, delirio. C’è meno sperimentazione rispetto a due vette assolute come “Flowers of Romance” e “Second Edition/Metal Box” e allo sghembo “This is What You Want…This Is What You Get” ma tutto è assolutamente non banale. Le chitarre suonano acide, i fiati dei Tower of Power si incastrano stranamente bene con i lamenti del pazzo sulla torre.

“Love Hope”, “Good Things” e “God” sono aspre e potenti, stridono come unghie sulla lama di un temperamatite, “Unfairground” ed “Emperor” aprono squarci melodici cordiali e gradevoli come pozze di nafta. “Acid Drops” e “Think tank” offrono un tappeto cingolato e potente alle digressioni schizoidi dello psicotico londinese. Il tutto, con una solidità compositiva che Johnny aveva trovato a targhe alterne su “Album” e “Happy” e sembrava aver perso del tutto nello scialbo “9”.

Insomma, nel 1992 mi suonò come un grande e gradito ritorno. Peccato che l’universo mondo non sia stato dello stesso parere, che il disco sia stato un flop, che i PIL si siano afflosciati sul disastroso risultato di vendite dello stesso, che quell’avventura prodigiosa si sia inabissata fino a poco tempo fa. Continuo a chiedermi: clamoroso abbaglio collettivo o mia perdita temporanea di raziocinio? La logica mi fa propendere per la seconda ipotesi, ma lo ascolto dal 1992, sono passati 18 anni e ancora non mi è venuto a noia… non posso che implorare, consigliare, invitare tutti a dargli un’altra chance.

Con l’occasione, voglio ricordare uno dei più grandi chitarristi di sempre: John McGeoch, morto nel 2004 a soli 49 anni dopo aver militato nei Magazine, nei Visage, nei PIL e nei Banshees di Siouxsie, incidendo con lei capolavori gotici del calibro di “Juju” e “Kaleidoscope”: “That What Is Not” è l’ultimo album in cui ha suonato.

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