Berlino e il ventesimo secolo.
Una città immensa, dapprima glorificata quale capitale di un impero e successivamente sventrata, rasa al suolo, ricostruita, lacerata e divisa, e ancora riunita e rattoppata, i cubi di cemento in continuità agli antichi resti dei fasti prussiani.
Mesi fa, il freddo e la neve nelle ossa, per giorni vi camminai, la esplorai, vi respirai l’aria di un passato che è storia solo se non lo si vuol definire cronaca. I cadaveri in muratura e le disomogeneità architettoniche, e quel lungo nastro di cubi che simboleggia quello che una volta era la cortina del mondo non sono i monumenti della Roma dei Cesari o gli emblemi della Parigi imperiale, vetuste vestigia di un passato sofferto e glorioso; sono, bensì, ferite ancora aperte, memoria dei giorni nostri – e pure miei.
Lungo la sponda della Sprea, all’ombra del Duomo e a due passi da Alexanderplatz, cuore drammatico e sontuoso di quella che, fino a vent’anni fa, era Berlino Est, sorge un piccolo, bellissimo museo. Esso è emblematico di un periodo, di un modo di essere, e di essere costretti; ma, in fondo, costretti in un certo modo.
Se pure la sostanza fu di sofferenza (e basta una visita al carcere di Lichtenberg per rendersene minimamente conto), il DDR Museum raccoglie l’altra faccia della medaglia – quella pubblica della Repubblica Democratica Tedesca, quella che parla di una piccola nazione in cui la vita sapeva regalare piccole soddisfazioni e la sensazione di un superficiale benessere, con tante piccole belle cose, Ostalgicamente solido eppur grigio come i casermoni che la ospitavano.
Su una parete compaiono alcuni nomi di glorie musicali locali (perché anche la musica fa una nazione); tra essi, si legge un titolo (“Wenn ein Mensch lebt”, se un uomo vive), ed un nome: Puhdys.
Il più celebre gruppo della Germania Est si formò ad Oranienburg, a nord di Berlino, nel 1969 (ma, con formazioni diverse, di questi giovanotti si parlava già nel 1965, grazie all’impulso del primo leader Udo Wendel e del suo combo).
Il nome, privo di particolare significato, non è che un acronimo tra le iniziali dei nomi propri dei membri che, nel momento di tale decisione, erano di casa nel tumultuoso gruppo: il tastierista Peter Meyer, il batterista Udo Jacob, il bassista Harry Jeske ed il chitarrista e cantante Dieter Hertrampf (che, pronti-via, subito sostituì proprio il buon Wendel). La “y” e la “s”, simpatiche ed allegre, immagino siano state adottate per conferire una pronunci abilità rotonda al simpatico nome.
Quando il gruppo, nel 1969, fu ufficializzato tramite la licenza artistica del Paese, Jacob era già stato sostituito da Gunter Wosylus ed un secondo chitarrista/cantante/Dieter – Birr – si era unito alla combriccola, che così si trovò in un equilibrio di formazione per circa un decennio. Tanto mi basta, ora, e per quanto riguarda questa mia, la loro biografia qui si ferma; basti solo aggiungere che proprio i due Dieter, con Meyer, sono gli unici tutt’ora in organico agli immarcescibili e finalmente tedeschi tout-court Puhdys attuali.
Il primo singolo, “Türen öffnen sich zur Stadt" (Porte aperte alla città – ovviamente sì, cantano in tedesco: adorabili!), è clamorosamente di ispirazione Uriah-Heepiana (correva l’anno1971, e “Gypsy, in fondo, non nacque che nel precedente): si tratta di un tirato hard rock, farcito di cori, contro-cori e contromagie, con un simpatico e perforante organo che incornicia una chitarra che davvero pare quella di Mick Box.
Nel 1972, i nostri parteciparono ad uno dei film di propaganda del regime (“The Legend of Paul and Paula”, di Heiner Carow): la loro musica cominciò ad acquisire notorietà.
Tre brani di questo lavoro, peraltro, confluirono nel primo album del gruppo, “Die Puhdys”, del 1974 (da non confondersi con il successivo “Puhdys”, dell’anno seguente): si tratta di “Geh Zu Ihr”, “Zeiten und Weiten” e proprio della canzone indicata nel DDR Museum di Berlino.
La prima è un bel pezzo per basso ubriaco, voce a grattugia e sorta di scacciapensieri, con un ponte strumentale che a me ricorda qualcosa dei Beatles. La seconda, che peraltro conclude l’album, è un brano più tirato, a metà tra gli Uriah Heep di “Salisbury” ed i Led Zeppelin di “Immigrant Song”. “Wenn ein Mensch lebt”è, invece, una spiazzante ballata per piano e lingua tedesca, tanto melodica quanto sgraziata, sicuramente irresistibile.
Talmente irresistibile che è praticamente “suggerita” dai Bee Gees, che nella piacevole “Spicks and specks” proponevano qualche anno prima proprio quel gioioso e pulsante tema di basso – ma, in fondo, ‘sti cazzi: io ‘sto brano lo amo.
Detto della coda, torniamo al principio: l’album, che per il resto contiene i singoli pubblicati dalla band fino a quel momento, è aperto da un bel rockettino (volendo, un po’ Beach Boys) che risponde al nome di “Vorn ist das Licht; e se davanti c’è la luce, con un canto d’amore (“Von der Liebe ein Lied”, impreziosita dal sassofono di Meyer) tenero, eppure inquieto, si può giungere fin sulla Luna: “Mann in Mond” è solare nelle sue folate d’organo e si avvale di un ritornello decisamente accattivante.
Più di carattere (e perdonate l’ovvia e triste battuta) la successiva “Vineta”, che narra il passato glorioso e la fine peccaminosa della leggendaria città Baltica (Sie nannte sich Vineta; Neid und Hass trieb sie hinab – La chiamavano Vineta; invidia ed odio la fecero sprofondare).
Molto tirato e duro, il brano si segnala anche per temi di tastiere e sassofono che, tanto per continuare il gioco dei rimandi, possono ricordare i Van Der Graaf Generator.
Le già più volte evidenziate influenze Heepiane, infine: oltre che nella già citata (e non a caso, visto che è stata inclusa nell’album)“Türen öffnen sich zur Stadt", sono evidentissime nella bella “Ikarus”, tra i brani migliori dell’album, in cui un bel ricamo di chitarra e gli immancabili coretti si arrotolano su una ritmica granitica che non conosce soluzione. Le due canzoni sono separate dal gioioso incedere di “Sommernicht”, fresco interludio tra due brani piuttosto densi.
Si tratta dunque di un bel lavoro, magari ingenuo, sicuramente prezioso, opera prima di una storica e gloriosa band che merita senza dubbio di essere scoperta; le ispirazioni degli esordi, cogli anni, diventeranno una precisa identità artistica, che porterà i Puhdys ad attraversare dapprima il muro, e poi i decenni, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Eppure…
Ma siete davvero sicuri che, anche se siete sicuri di non conoscerli, davvero non li conoscete?
Non è che l’inno dell’Hansa Rostock vi dica qualcosa, magari grazie agli sforzi del buon Caressa?
Ah, che cosa fantastica.
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