Ed ecco un’altra band meteora che aveva gettato la spugna troppo presto e che ora si è decisa a tornare alla ribalta. I Pure Reason Revolution si erano distinti per un indie-prog psichedelico realizzando un gioiello intitolato “The Dark Third” e altri due album caratterizzati invece da una matrice più elettronica e in un certo senso più tamarra. Poi lo scioglimento e quel senso di smarrimento fra chi credeva in loro, quel continuo esclamare “cazzo, erano una band promettente”.

Ma ora il grande ritorno. Ed è un ritorno nello stile che meglio si addice loro, ovvero quello di “The Dark Third”, quello con la chitarra più in vista ma che fa anche un uso geniale di sintetizzatori ed ha il giusto tocco psichedelico. E siamo pure sinceri: è il loro miglior album, quasi come se questi dieci anni di stop fossero intenzionali al fine di tornare alla grandissima.

Inserire i Pure Reason Revolution nel filone progressive è una scelta che suscita qualche perplessità. I loro brani non hanno quel dinamismo strumentale e quella grande varietà ritmica e d’intensità che il prog comporta, non c’è spazio per il sinfonico, l’etereo, il barocco, per gli organi e i synth alla Keith Emerson e le sue fughe strumentali o i vocalizzi alla Peter Gabriel, sono invece più orientati verso un rock più ordinato ed energico, pungente ma dotato di sensibilità melodica, che tuttavia non si fossilizza su una rigorosa forma canzone ma ammette una moderata libertà delle forme e accoglie anche brani lunghi e più o meno articolati. In particolare da un punto di vista sonoro l’approccio è marcatamente orientato verso l’indie e l’alternative rock, quando senti le chitarre graffianti, massicce e composte, i synth acidi e ancor più il timbro della voce maschile che suona molto urbana, british e poco melodica alla fine viene facile affermare che siamo su territori decisamente alternative. All’incirca possiamo definire i Pure Reason Revolution come un ibrido fra Muse, Porcupine Tree e Primal Scream.

“Eupnea”, quarto lavoro della band a dieci anni di distanza dal precedente, tuttavia ci chiarisce tutti i dubbi in merito: i Pure Reason Revolution sono senz’altro progressive, l’album adotta infatti una formula ormai ampiamente collaudata e funzionante nel prog, ovvero quella che prevede poche tracce che da sole occupano un minutaggio consistente; i brani sono solamente 6 e la durata totale è di circa 47 minuti, una durata a dire il vero nemmeno così esagerata, anzi piuttosto contenuta, che guarda addirittura indietro agli anni ’70 quando gli album avevano una durata fortemente condizionata dal limite di spazio imposto dal vinile; album con poche tracce e con durata attorno o addirittura inferiore ai 40 minuti è stata la prerogativa di molti capolavori che hanno fatto la storia del prog e questa similitudine contribuisce ancora di più a convincerci che siamo su territori chiaramente prog; inoltre abbiamo la quasi certezza che in quei minuti e in quelle poche tracce la band abbia dato il massimo e che la prolissità venga tenuta alla larga. Altro elemento che cattura interesse e ci proietta nel passato è la copertina, non tanto per la stranissima quanto curiosa raffigurazione ai limiti del nonsense - un uomo con la testa di leone bianco sul ciglio di un ghiacciaio che si lacera la lingua con la punta di un martello (sto ancora cercando di comprendere il significato simbolico dell’immagine) - quanto per la scelta alquanto insolita di riportarvi la tracklist; praticamente un retaggio degli anni sessanta ma quelli più pop, all’epoca del 45 giri, quando l’album era essenzialmente una raccolta di successi e sulla cover compariva il faccione del cantante con i titoloni delle canzoni a svolazzargli intorno; una scelta atipica per il prog ma di per sé sicuramente prog, una scelta originale, che cattura l’attenzione proprio in quanto insolita.

L’album è essenzialmente a due velocità, 3 brani sono brevi ed immediati, 3 sono invece lunghi e sostanziosi, il divario artistico fra i due tipi di composizione sembra essere tangibile ma sembra che la cosa sia intenzionale. I brani brevi non hanno grosse pretese se non quello di regalare momenti freschi e piacevoli. L’opener “New Obsession” scorre semplice e diretta senza pretendere di essere un capolavoro assoluto ma con l’intenzione di essere più che mai efficace, prima lenta con delle chitarrine acute e cullanti dall’approccio quasi post-rock poi moderatamente movimentata con raffiche di basso e chitarra di vaga ispirazione Muse; un brano che si prefigge di essere nient’altro che un’opener ma che sia un’opener grandiosa. “Maelstrom” invece vuol essere semplicemente un brano melodico ma dalla melodia leggera, rilassata, non appariscente, siamo lontani anni luce dagli strappalacrime degli Anathema; ai Pure Reason Revolution bastano delle sottili note di piano per creare un brano lucente al punto giusto, solo il drumming è massiccio per dare un po’ di carica e solo nel finale il brano si veste di una pacata energia. “Beyond Our Bodies” invece non incide più di tanto, non sa dove andare a parare, non sa se vuol essere un buon brano melodico, se essere energico o entrambe le cose, alla fine è un riempitivo di buona fattura e niente più, chi pensa che in un album di sole 6 tracce sia praticamente impossibile trovare il riempitivo dovrà ricredersi.

Quindi la band ha impiegato sostanzialmente solo una parte di sé nei brani brevi per preservare l’altra parte, quella migliore e più creativa, nei brani lunghi. Stavolta siamo in presenza di piccoli gioielli indie-prog, perfettamente in bilico fra prog, alternative e psichedelica. “Silent Genesis” è a mio avviso il punto più alto, un brano la cui struttura richiama non poco le composizioni post-rock, infatti mantiene un andamento costante e regolare, con chitarre delicate e cullanti e occasionali riff più spinti, il tutto accompagnato da synth psichedelici e acidi, mellotron ispidi, persino parti di piano elettrico di estrazione quasi fusion ma suonate con aggressività. “Ghosts & Typhoons” ha un incedere lento e sofferto nei primissimi minuti, con note di piano gravi e oscure, un’elettronica debole e grigi brusii di mellotron, poi si carica con percussioni quasi tribali, pungenti schizzi elettronici, cavalcate di chitarra ancora una volta in stile Muse, suoni di carillon e pure qualche tentativo di inserto orchestrale. E poi c’è la title-track, 13 minuti con diverse variazioni di ritmo e di intensità al suo interno, indubbiamente il brano dalla struttura più marcatamente prog sebbene anch’esso totalmente libero da virtuosismi strumentali e barocchismi di vario tipo, una composizione che racchiude un po’ tutto ciò che l’album regala anche se col passare dei minuti può sembrare un tantino dispersiva.

Un ritorno che ci voleva davvero, ridurre ad una parentesi una band come questa sarebbe stato un peccato… e la stessa band sembra essersene resa conto, sta di fatto che senza perdere più tempo si sono già messi al lavoro sul prossimo album, come se volessero recuperare. L’attesa comincia già.

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