Ai Queensrÿche è bastato liberarsi dello storico cantante per riacquisire consensi, per passare da band finita e bistrattata da anni a band nuovamente grandiosa. Non esattamente per il sottoscritto, dal 2013 io vado puntualmente controcorrente e difendo a spada tratta l’operato successivo a “Promised Land”, sottolineando e premiando la voglia della band di reinventarsi anche a costo di non piacere, biasimando ma non tantissimo il recente corso della band per la scelta di adagiarsi su sonorità comode e poco rischiose risultando a lungo ripetitivi. Effettivamente se analizziamo cosa hanno fatto finora i Queensrÿche con Todd La Torre non possiamo che constatare che si sono seduti comodi comodi sul loro hard’n’heavy (a volte più heavy metal e altre più hard rock) tradizionale con poche vere influenze progressive (ribadisco che l’affinità di questa band al genere è mooolto dubbia e la si accetta abbastanza con riserva), con un sound solido e brillante ma ormai trito e ritrito.
Qualcosa però in questo “Digital Noise Alliance” cambia. Resta invariato il sound complessivo, è sempre il solito hard’n’heavy potente, sempre con i soliti riff rocciosi e una produzione assolutamente limpida, ma c’è una buona manciata di tracce che possono catturare l’attenzione, senza comunque portare uno stravolgimento. Ne ho trovate almeno 5 che meritano di essere sottolineate. Ad esempio “Behind the Walls”, dove oltre a delle buone scale di chitarra troviamo degli interludi di sintetizzatore completamente insoliti per la band. Troviamo poi il brano forse più progressive dell’intera produzione del combo di Bellevue, “Tormentum”, sette minuti con continui cambi di ritmo, momenti più veloci ed altri più lenti e perfino rilassati e cupi, passaggi tipicamente prog e pure dei tappeti corali dal retrogusto gotico, un brano che li porta quasi nel vero prog-metal, un dinamismo sicuramente inconsueto ed inatteso. Altro gioiello è la ballad “Forest”, pulita ed intensa, chitarre leggere e precise, tappeti di tastiere ariose e precisi suoni di archi, è il capolavoro che non ti aspetti, al primo ascolto mi ha fatto davvero gridare al miracolo e sperare nel grande album, posso solo aggiungere che non ha davvero nulla da invidiare a ballate degli anni migliori quali “Silent Lucidity” o “Bridge”. Altro brano molto ben costruito è “Hold On”, segnato da bellissimi momenti lenti e ancora da inserti ritmici piuttosto elaborati che smascherano in qualche modo gli intenti prog della band. A catturare però la mia attenzione è stata però la traccia bonus conclusiva, una cover di “Rebel Yell” di Billy Idol. Devo ammettere che fino a prima di cominciare a scrivere questa recensione non sapevo né che si trattasse di una bonus track né che fosse una cover, devo dire che la cosa mi ha lasciato un po’ basito, dato che (probabilmente l’ho già detto diverse volte) non sono un amante di entrambe le cose. Quante volte ci siamo innamorati di una canzone per poi rimanere di stucco scoprendo che si trattava di una cover (pensiamo a “Knockin’ on Heaven’s Door” rifatta dai Guns’n’Roses), non sarebbe una cattiva idea obbligare per legge a livello internazionale a specificarlo nelle tracklist ufficiali, per questioni di trasparenza... Mi è dispiaciuto saperlo (anche se con determinate coordinate uno strano sospetto avrei anche dovuto averlo…) perché è un qualcosa di diverso per i Queensrÿche, è stato piuttosto strano sentire da loro un brano così sorprendentemente frizzante, con quei sintetizzatori in primo piano e quel mood anni ’80 attualizzato.
Questa manciata di tracce particolarmente spregiudicate e ispirate mi ha portato ad una domanda: che capolavoro avremmo avuto se in tutto l’album avessero osato in questa maniera? Tutto sommato però non possiamo lamentarci di tutto il resto, sarà pure ordinario e senza grosse sorprese ma sembra comunque tutto molto più lucido del solito, la marcia in più rispetto ai precedenti lavori è stata comunque messa. Passaggi interessanti e moderatamente elaborati ad esempio li troviamo anche in “In Extremis”, “Out of the Black” alterna molto bene riff rocciosi e granitici a parti più cupe ed è di una potenza inaudita, sorprende poi la perfetta malinconia di “Lost in Sorrow” dove le chitarre dure si fondono molto bene con i tappeti di tastiere e le atmosfere piuttosto grigie.
Indubbiamente il migliore dell’era La Torre, un disco ricco di energia ben trasformata, non un disco rivoluzionario ma in grado di riservare qualche piccola sorpresa e garantire alla massima potenza ciò che dal marchio ci si aspetta.
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