Rispolverare una delle parti migliori di sé durante un momento poco entusiasmante della propria carriera, desta sempre un legittimo sospetto di speculazione nostalgica e mercantile.
Onestamente, sin da quando sono venuto a sapere dell’intento dei Queensryche di far rivivere uno dei loro lavori più grandi, non ho potuto fare a meno di paragonare la loro idea alla velleità degli Helloween.. tentare di vestire con i panni dell’eccellenza un album più che discreto, semplicemente imponendo alla mente dell’ascoltatore una dialettica con il vero capolavoro della band (Keeper OF the 7 keys part. 1e 2). Perché l’epocalità rappresentata dai 2 Keeper nel mondo del power/speed metal, è stata più o meno la stessa di quella che Operation Mindicrime, nell’anno di grazia 1988, ha rappresentato nell’emisfero del neo metal progressive: un concept album, dove la saga di Nikki, Dott. X e Sister Mary ha capitolato il tempo grazie a tutta una serie di fattori a mio avviso irripetibili.
Arrangiamenti musicali a dir poco magnifici ed adattamenti orchestrali intrecciati come un dedalo di rubini in un contesto musicale più generale partorito da una band in stato di grazia, (mercè soprattutto la penna di De Garmo e l’ugola infinita di Tate) hanno creato un vero e proprio masterpiece, appena lambito quanto a qualità dai suoi due successori (il più commericale 'Empire' e l’eclettico, ma a mio avviso ugualmente magnifico, 'Promise Land'). Perché "Operation Mindcrime” è stato grande per la sua coerenza ed il suo realismo, grande per lo sfogo di una band frustrata dalla situazione politica e sociale americana (ascoltate la ferocia dei testi a tamburo battente di Spreading The Disease, contro l’egemonia del potere politico d’una chiesa secolarizzata), grande perché dopo quasi 2 decadi e la successione di 3 presidenti degli Stati Uniti, il messaggio politico e polemico di quel disco è ancora dannatamente attuale, grande per il songwriting dannatamente perfetto, così dannatamente calibrato, con le parole e la storia seguono la musica come un’ombra, grande soprattutto perché ogni canzone riesce ad essere al contempo unica ed assieme un tassello del mosaico. Insomma 5 musicisti ispiratissimi che hanno raggiunto l’empireo dell’ ispirazione e dell’esecuzione.
Oggi quei 5, (anzi 4 più uno.., perché la ripresa del concept non appartiene a Chris..), con qualche ruga in più, hanno ritentato di sfidare il passato, ben sapendo che la storia non rifluisce mai e soprattutto consapevoli di aver consumato l’ultima decade attraverso una terna discografica, tutto sommato più che deludente: un album mediocre (Hear In The Now Frontier), un album insipido (Q2K) e l’ultimo, (Tribe), appena sufficiente.
Desiderosi di riscattarsi, i 5 di Seattle hanno deciso così di andare avanti voltandosi prima indietro, e così, nella stessa veste grafica del primo masterpiece ci hanno imposto un’ordalia: un giudizio su un disco che, per risollevare le sorti della band, in certo senso ha lanciato la sfida al suo predecessore, per pietrificarsi magari in ancora altre due decadi. Missione compiuta? Difficile dirlo. Del resto, sarebbe davvero stupido rispondere perentoriamente SI o NO, perché, come in quasi tutte le cose, l’ultima parola penzola sempre dalla bocca del tempo. E’ certo, tuttavia, che OM2, è un disco intrinsecamente diverso dal suo progenitore.. identico a quest’ultimo soltanto sullo sfondo ideale.
I Queensryche non sono più quelli di 20 anni fa e (e devo confessarlo) l’idea stessa di rispolverare un’idea già “ideata”, mi ha maldisposto un po’ verso il suo giudizio.. in ogni caso, e cercando di obbiettivarmi il più possibile, diciamo che il suond che pervade questo platter è tendenzialmente quello che i 5 ci hanno offerto negli ultimi lavori, risollevato notevolmente, tuttavia da una linea narrativa avvincente, da parti vocali (soltanto a tratti, per la verità) superbe e da un supporto orchestrale anche in questo caso, incidentissimo. E così “Rock, Revenge & Redempion”.. the long-awaited Sequel begin…
Si parte con un’ouverture subdolamente schizoide dove il sottovalutatissmo Scott incalza l’orchestra con controtempi da brivido, fino al sopraggiungere di un secondino.. neanche il tempo di liberare Nikki dalla prigione dove ha aspettato per 18 lunghi anni e, mercè un giro di chiavistello, dopo appena 8 secondi eccoci catapultati nella terza traccia dove il protagonista può finalmente urlare.. "I’ m american".. prima “vera” song dell’album: lontana cugina di "Revolution Calling", vede i due chitarristi alfieri d’una sezione ritmica notevole e che culmina in un assolo simil power. Seppur di breve durata (ma nelle 17 tracce di questo cd, soltanto una supera i 5 primi) la canzone convince tanto da sollevare abbastanza la mia adrenalina. L’emozione si solleva ancor più con l’intro di "One foot in hell"; 4 episodio dal sapore bimorfo, perché, dopo un inizio promettente progressivamente scende in picchiata verso sonorità abbioccanti e decisamente insipide, appena risollevate dall’ottimo episodio chitarristico di Michael e Mike. La quinta postazione (Hostage) appartiene ad una canzone decisamente hard rock; di primo acchito colpisce subito per l’immediatezza delle sue linee melodiche, però non so perché ma a tratti sembra più uscita dalla penna dell’ultimo Deris o Joey Tempest che dai Queensryche: il rock della domenica mattina, che è costretto a permettersi un quarantenne papà metallaro, incatenato da mogli e figli che minacciano di sabotargli lo stereo se osa inasprire il condominio con roba più pesante. In ogni caso, e nonostante questo limite (se così lo si può chiamare..) si tratta di un pezzo decisamente buono e cazzuto.
Discorso non troppo dissimile per il brano successivo "The hands", che tenta un approccio iniziale molto vicino a "The eyes of a strangers". Nel suo svolgimento, tuttavia, il pezzo sembra una montagna russa; prima si abbassa con le tonalità leziose di cori smorzati, per poi risollevarsi nel finale con le trame sonore incalzate da Mike e Michael e crescere ulteriormente con l’assolo di Mike. L’apporto dei due chitarristi (ed in particolare di Wilton) credo sia davvero uno dei punti di forza del disco Sinceramente ridicola, poi, la dissonanza d’una canzone dal titolo "Speed of light", rispetto al suo intrinseco incedere soporifico.. non solo, ma questa song comincia riprendendo manifestamente le sonorità di quella macroscopica caduta di stile che fu 'Hear in the now frontier', sebbene nel suo pezzo più convincente "Sign of the time"… In ogni caso, la fine della 6 canzone è affidata ad un oscuro intreccio di voci sussurranti che rimboccano Nikki nel proferire… ”Don’ t worry i’ ll kill the bastards”.. e così, prendendolo in parola, finalmente erompe un sound bastardo nel’8 traccia: “Signs say no” è, infatti, un episodio piuttosto violento, piacevole e nel complesso convincente. Dopo un risotto in bianco (Re-arrange you, timidamente impepato come al solito dai due chitarristi) arriviamo al piatto forte dell’album: "The chase", dove il sodalizio vocale di Tate con sua maestà R.J. Dio (nei panni del dott. X), da vita ad una song a dir poco spettacolare: sebbene un duetto tra queste due “divinità” renderebbe oro anche una canzone di Nila Pizzi, devo dire che, preso in sé e per sé, un brano così sentito, rappresenta forse l’apice creativo dell’album.
Sembra cacofonica, invece, la successiva "Murderer?", ma è solo parvenza perché ascoltandola bene, ne deriva un pezzo dal sound imprevedibile e nel complesso una canzone più che buona (e nonostante il basso dell’eclettico Ed, si diverta a riecheggiare sonorità da pseudodance). Dopo "Circles", dove un intermezzo intimista di Geoff disegna verbalmente (e magnificamente) l’interno mentale del protagonista, giungiamo così alla ballata “If i could change it all”: una grande prestazione di Tate, l’apporto di Pamela Moore e i cori simil-gregoriani, riecheggiano la grandezza di "Suite sister Mary" e ci regalano una traccia a dir poco struggente e suggestiva. Neanche il tempo di respirare e una altrettanto grandiosa "An intentional confrontation", pone ancora nelle corde vocali di Pamela Moore e Miranda Tate un superlativo intermezzo, chiuso da un ancora più magistrale perfomance di Michale Wilton. I livelli a questo punto sono davvero altissimi; a confermarli ulteriormente, una grandissima "A junkie’s blues" che gioca su un arrangiamento orchestrale fatto su misura per l’ugola di Tate. Grande, grande e soprattutto grande la chiusura di Rockenflied. Non dico che si sprofonda, ma di certo dopo tanto bagliore, si fa un passo in dietro con "Ferar city slide"; song poco più che sufficiente soltanto per la grandissima chitarra (in questo caso “salvagente” ) di Wilton. Da questo proscenio così variegato, cala il sipario con la iper romantica “All the promises”.. un’ inaspettata litania sull’amore tra i due protagonisti (Nikki e Mary) che dal più onirico dei contesti ci salutano con un’iconografia vocale di due voci che si tengono per mano.
Insomma un disco variegato e difficile, questo "Operation Mindicrime, atto secondo"; sebbene sconti diverse canzoni appena sufficienti, effettivamente ci regala episodi notevoli ed ancora almeno 6 o 7 pezzi della migliore tradizione Queensryche che mai avresti creduto più di ascoltare. Nonostante l’idea di abusare del “già pensato”, come ho già detto, sia un po’ penalizzante, credo che, dopo il lontano 'Promise Land', quest’ultimo lavoro dei Queensryche sia senza dubbio il massimo che potevamo aspettarci… (soprattutto tenendo presente i 3 dischi precedenti).
Tolgo mezzo punto per l’abuso d’una idea preesistente e (forse banalmente) concludo pensando ad Operation Mindcrime II, “solamente” come il “capolavoro” dei Queensryche senza DeGarmo…
Alle orecchie postere, poi, l’insindacabile giudizio più vero…
VOTO 7 ½ .
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