Eccomi a parlavi di uno degli album forse più sottovalutati dei Queensryche: trattasi di "Tribe", uscito nell'ormai lontano 2003 per la Sanctuary Records. L'opera chiude il "trittico maledetto" del combo di Seattle: "Hear in the Now Frontier", "Q2K" e "Tribe", per l'appunto, cioè tre dischi mal digeriti da critica e fans, forse perchè successivi ai precedenti tre capolavori della band, "Operation: Mindcrime", "Empire" e "Promised Land".

Difficile fare meglio dopo l'epocale "Operation: Mindcrime", la perfezione commerciale (ma non solo) di "Empire" e quella enigmatica di "Promised Land", album fantastico per testi ed atmosfere. Eppure, a distanza di quasi dieci anni, "Tribe" mi appare diverso dai primi ed ormai remoti ascolti: allora mi era scivolato addosso senza lasciare altro se non la brutta sensazione di aver perso la mia band preferita, finita in qualche remoto territorio musicale e palesemente a corto di idee. La vena d'oro dei Queensryche si era esaurita? Lo pensavo sinceramente, avendo ancora nella testa le composizioni regali di "Operation: Mindcrime", i meravigliosi barocchismi di "Empire" e la ruvida introspezione di "Promised Land". Dieci anni dopo, proprio mentre il futuro dei Queensryche è incerto, colgo l'essenza di un album non paragonabile alle migliori produzioni di Tate e compagni ma comunque dotato di una propria dignità musicale e pienamente degno di essere riscattato dalla nomea di pecora nera della loro produzione. Vale la pena di analizzare ciascuno dei dieci pezzi che lo compongo, non prima di aver ricordato che insieme a Geoff Tate, Michael Wilton, Eddie Jackson e Scott Rockenfield, suonarono nell'occasione, Mike Stone (poi parte dei Queensryche di "Operation: Mindcrime II") e l'immenso Chris DeGarmo, anima e mente della band, alla sua ultima defilata apparizione.

Si parte con la cadenzata "Open", segnata dal riff ossessivo delle chitarre e dalla voce imperiale di un Tate che non conosce l'avanzare del tempo. Il chorus possente e il giro di basso di Jackson spezzano l'incedere regolare del brano fino al secondo episodio dell'album, quella "Losing Myself", nella quale il tappeto ritmico steso dalla batteria di Rockenfield e ancora dal basso di Jackson preparano il terreno al coro melodico e po' ruffiano di una song fatta apposta per scaldare la platea. Arriva "Desert Dance", senza dubbio il brano migliore dell'album: intro orientaleggiante presto squassato dagli "sfregi" sapienti delle chitarre di Wilton, Stone e DeGarmo. Melodie sfacciatamente arabe ci accompagnano fino al coro acido di Tate, lasciando immaginare fuochi di bivacco nel deserto al chiaro di luna. Pezzo possente, degno dei migliori Ryche. Una melodia ancora orientale ci accompagna nella ballad "Falling Behind", dalla quale emerge trionfante il lato dolce e rassicurante della voce di un Tate amaramente riflessivo. Da brividi il bridge piazzato nel bel mezzo di una canzone autenticamente gradevole nella sua semplicità. E' tempo ora di "Great Divide", la song numero cinque, volontariamente piazzata giusto nel mezzo dell'abum. Belle le chitarre che la aprono; orecchie al testo magistralmente interpretato da un Tate sempre più disilluso ("is hope for America?"). La successiva "Rhythm of Hope" è forse l'episodio più basso di "Tribe", ma è comunque un pezzo che lascia traccia come la speranza che dovrebbe sempre albergare in ciascuno di noi. Dopo la caustica title track "Tribe", il brano più metal dei dieci, nel quale Tate continua a ricordarci che noi tutti apparteniamo alla stessa tribù ("I see myself in every man"), passando per "Blood", pezzo senza infamia nè lode, arriviamo alla meravigliosa "The Art of Life", non a caso composta da Tate e DeGarmo. Atmosfere rarefatte che ricordano quelle di "sp00L", ci spingono all'interrogativo principe: qual'è l'arte del vivere? Chitarre che aprono e chiudono porte musicali accompagnano Tate fino alla risposta finale: "The art of life is...". "Tribe" muore con "Doin' Fine", l'ultima perla composta da DeGarmo, una mid tempo che si offre alla speranza ("And I know that we'll all be fine"), chiudendo il viaggio ancestrale di Tate e compagni nelle paure e nei limiti dell'umanità. 

Chiunque ami i Queensryche non può prescindere da un ascolto attento e ripetuto della loro produzione. Il combo di Seattle avrebbe potuto godersi gli allori dei grandi successi di "OM", "Empire" e "Promised Land", limitandosi a replicare una formula rivelatasi vincente. No, questa non è mai stata la preoccupazione dei Ryche: sperimentare suoni e melodie nuove in una sfida personale con se stessi, ecco ciò che li ha sempre animati. Dalle vette di "Eyes of a stranger", ai flop grunge di "Hear in the Now Frontier" (altro album da rivalutare), i Queensryche hanno sempre imboccato il sentiero più tortuoso, non badando alle critiche ma misurandosi solo e sempre con la propria capacità di creare musica "nuova" e diversa. I cinque di Seattle, divenuti poi quattro ed ora, dopo il litigio con Tate, tre, non hanno mai avuto rimpianti, dimostrandosi sempre autentici musicisti e spiriti liberi.

Chiudo questa recensione con il pensiero che compare sulla brochure del cd di "Tribe": "The chain around the neck of humanity is our tendency to pass judgment on others". Mai verita fu più autentica.

Andrea Antonio Colazingari

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