Si riparte dalla fine. Le vicende, sparpagliate in un confuso disordine cronologico, vengono brevemente riassunte dalla killer, a poche ore dal suo vero obiettivo: uccidere Bill.
Di nuovo El Paso, nel giorno delle prove del matrimonio: la giovane sposa esce pensierosa dalla cappella, quando il canto di un flauto le annuncia un incontro inaspettato. Tarantino sceglie, per introdurci nella conversazione, un bellissimo fotogramma: un bianco e nero, il contrasto per eccellenza, ci dice che ciò a cui stiamo per assistere è il millenario contrasto, perfettamente equilibrato, fra un uomo e una donna. L'intero colloquio è studiato nei minimi particolari: ad ogni movenza ne corrisponde una uguale e contraria, perché anche la finzione cinematografica rispetti l'atavico equilibrio dell'esistenza.
Se il filo rosso di 'Kill Bill' è la vendetta, noto sin dalla citazione che apriva il primo volume e che è esplicito lungo l'intero svolgersi della narrazione, ora lo spettatore viene introdotto in una seconda possibile chiave di interpretazione. Vediamo la sposa, che ora finalmente ha un nome, nel suo lungo percorso di addestramento: i super eroi esistono, ma devono conoscere umiliazione, dolore e solitudine per diventare quello che sono. Devono essere uomini.
Ci si dovrebbe chiedere se tutta la forza conquistabile con esercizio e perseveranza possa essere dominata dalla volontà umana, o se invece il super eroe rimane schiavo delle sue potenzialità. Chiunque può giocare con spade samurai, magari ammazzare qualcuno in combattimento e farsi una fama; chiunque può arrivare a non temere la morte, rimanendo nella logica guerriera del film naturalmente; ma quanti possono, con la sola forza di volontà, fermarsi, dire "no grazie, non mi interessa"? La forza umana si limita davvero all'animalesca tensione verso la potenza, per sopravvivere alla quotidiana lotta per l'esistenza? Non è forse nel momento in cui compiamo una scelta, che comporta rischi e che potrebbe apparire folle, come quella della più spietata e pericolosa guerriera che abbandona tutto per un minuscolo embrione che non è neppure venuto al mondo, non è in queste circostanze paradossali che dimostriamo l'unica forza invincibile che ci è concessa? Non è un caso, forse, che il grande maestro Pai Mei muoia avvelenato dal più ignobile dei personaggi.
Un essere umano, per arrivare all'apice della sua essenza, deve per prima cosa "trapassare dio", non quello che sta nei cieli, ma quello che vorrebbe diventare egli stesso, quello che non si ferma davanti a niente; il super-uomo che, facendosi beffe della coscienza propria e altrui, di fatto si spoglia della sua stessa essenza primaria, mutando in un effimero monumento all'efficienza e nulla più. Il colloquio finale fra Beatrix e Bill è di quelli che fanno rimanere col fiato sospeso per l'intensità. Raccontarlo o analizzarlo come profanamente potrei farlo io sarebbe ridicolo, e lo stesso vale per tante altre scene a cui ho fatto al massimo qualche breve accenno.
Ultima cosa che vale la pena di prendere in considerazione è la "rinascita" dell'eroina. Morta per sempre la killer spietata, dopo 4 anni di "gestazione" e tanta vendetta, la sposa si può concedere una nuova vita: superata la fragilità umana, superata la presunzione superoministica, ecco l'approdo alla dimensione eterna dell'esistenza terrena, in cui i guerrieri combattono (la "ruggente furia vendicativa"), i figli si emancipano dai padri (la sposa, visibilmente turbata dall'ascendente che Bill esercita su lei, porta avanti le sue decisioni, con rispetto e gratitudine verso l'antico maestro, ma soprattutto con fermezza), le femmine garantiscono la continuazione della specie (Beatrix, "Mommy" nei titoli di coda, rinuncia al suo uomo non per tutto il male che le ha fatto, ma già prima, per far nascere sua figlia in un mondo pulito, innocente).
"La leonessa si è ricongiunta al suo cucciolo, e tutto va bene nella giungla"
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