The Hateful Eight non è una delusione, ma non è nemmeno un nuovo capolavoro. Il percorso storico intrapreso con Bastardi segna qui il suo momento meno interessante dal punto di vista dei temi in gioco. Quentin torna al puro film di genere o quasi e non a caso per farlo riesuma una struttura che ricorda molto quella delle Iene. Ovviamente il regista e sceneggiatore non è uno sprovveduto e modula la narrazione alternando similitudini e differenze rispetto al film del 1992.

Questo nuovo lavoro può essere visto come la versione ipertrofica delle Iene, con personaggi più approfonditi e variegati, uno scenario più ostile e cupo, una tensione più costante e senza grossi momenti di distensione. Si procede insomma nella direzione dell'accumulo e non per niente si arriva alle 3 ore di film. Non potendo giocarsi la carta della novità come agli esordi, Tarantino deve obbligatoriamente lavorare sulla qualità e sulla quantità per dare nuovo lustro allo schema narrativo scelto. Va detto che riesce in tutti i suoi propositi: i personaggi sono riusciti, anche nella doppia identità di alcuni; lo scenario ostile e la bufera svolgono perfettamente la loro funzione, sulla scorta de La cosa di Carpenter, come rivelato qualche settimana fa. La tensione è quasi sempre altissima durante la sanguinolenta vicenda all'emporio di Minnie.

Resta però da capire se i propositi individuati dal regista abbiano un senso e un valore. Un senso ce l'hanno, sicuramente nel riplasmare un'alchimia narrativa tanto cara a Quentin. Il lavoro di ampliamento volumetrico è svolto bene, ma non sembra mirare a un obbiettivo particolarmente ambizioso; si tratta solamente di una rimasticatura stilistica di un concetto narrativo già espresso dal regista, addirittura al suo esordio. Questo va di pari passo con il restringersi delle questioni storico-politiche presenti: restano solo come pretesto per i litigi tra i personaggi, non sono temi veri e propri affrontati dal regista.

Questo non significa che il film non sia buono; semplicemente non sembra avere motivazioni profonde e una ispirazione nuova: è un lavoro di splendido manierismo. Se valutiamo la sua qualità in termini squisitamente artistici e narrativi, probabilmente dobbiamo parlare di un film superiore al suo predecessore Django. Anzi, è proprio vedendo The Hateful Eight che ci si rende conto di alcuni aspetti discutibili del film del 2012. Una questione su tutte: la gestione dell'empatia dello spettatore nei confronti dei personaggi. Certo, Samuel L. Jackson è decisamente il più simpatico, ma è ben lontano dall'essere l'eroe con il suo percorso di formazione e la sua rivincita finale. Da questo punto di vista allora siamo di fronte a uno dei lavori meno prevedibili del regista. Davvero per lunghi tratti non si capisce dove si stia andando a parare: ogni tassello ha la sua problematicità, come non accadeva da tempo. Tarantino, spesso concentrato più sullo stile e sui dialoghi che su trame particolarmente fresche, cambia leggermente le sue mire e riesce a partorire un groviglio di questioni che rimane ben intricato per gran parte del film. E così la gestione dei personaggi: lo spettatore fatica a vederci chiaro in questo reticolo di alleanze e attriti in costante evoluzione. La struttura è davvero convincente.

C'è forse un cambio di impostazione generale: il divertimento e il gusto epidermico per il cinema di Tarantino rimane, ma questa volta sembra cedere in parte il passo a un tipo di approccio più intellettuale, da cinema più paludato, complesso, arzigogolato. Tuttavia, se un approccio di questo tipo è apprezzabile per l'intenzione, non viene corrisposto da un parallelo sviluppo dal punto di vista dei contenuti. Voglio dire, The Hateful Eight è un film impegnativo, molto verboso e lungo: ha senso chiedere un simile sforzo al pubblico se non si ha un quid da dargli in cambio? La levigatura stilistico-narrativa è apprezzabile, ma non è sufficiente a giustificare un film di questa mole.

Resta un lavoro molto ben fatto: le musiche di Morricone sono splendide, con momenti davvero memorabili e cupi. Non c'è qualcosa che sia stato fatto male, non ci sono errori di realizzazione: lo sbaglio è all'origine. Da Tarantino ci si aspetta il meglio da tutti i punti di vista, invece qui il regista abdica a una certa componente più matura del suo cinema, per ributtarsi a capofitto nei generi, nello stile, nei dialoghi scoppiettanti, a volte anche fin troppo dettagliati. Uno spunto interessante sembrava venire dalla rappresentazione nel microcosmo dell'emporio del conflitto tra Nordisti e Sudisti. Ma è un abbozzo che lascia presto spazio a dinamiche puramente violente, con la lunga carneficina della seconda parte. Tutto molto bello, un finale imbrattato di sangue e nichilismo, davvero feroce. Ma quando arrivano i titoli di coda la sensazione è quella di aver assistito a un magnifico show, uno spettacolo di alto livello, ma anche un po' fine a se stesso. Invece Bastardi e anche Django, pur inferiore a questo film da diversi altri punti di vista, riuscivano a mettere un piede fuori dal recinto dell'arte per l'arte.

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