Prendere la musica e spogliarla della sua bellezza. Spogliarla della bellezza che sarebbe normale e tranquillizzante aspettarsi da lei, fino a lasciarne solo l’ossatura, la trama scheletrica che la sottende. Un lavoro di annullamento, di rinuncia, di semplificazione, che porta alla nudità della pura idea, dell’idea che non ha bisogno di altre motivazioni per esistere se non la sua stessa esistenza. Spogliare la musica.
E, dopo questo “fare deserto”, prendere lo scheletro della musica e tornare ad abbellirlo, aggiungendo però questa volta festoni che nessun altro abbia mai appeso prima, e che diano alla musica una bellezza nuova e strana. Si tratta della bellezza del più puro flusso di coscienza, dello scorrere delle emozioni nella loro forma meno mediata, senza spiegazioni e senza cliché, così come sono, e non è una bellezza rassicurante.
Insegnare alla musica nuove strade lungo cui dipanarsi, insegnare alla musica a non scorrere solo in un senso, dall’inizio fino alla fine della canzone, bensì a espandersi in ogni direzione possibile, come un ragno. Insegnare alla musica ad essere un ragno.
“La morte è un processo rettilineo”.
Il mondo sonoro in cui ci portano i Quicksand è totalmente astratto, ma allo stesso tempo anche fisico. E’ fisico perché le chitarre hanno distorsioni mastodontiche e sanno tagliare come rasoi; perché la ritmica ti scava un buco nel cervello e, una volta dentro, lo mette in vibrazione per risonanza; perché le frequenze più basse ti massaggiano il ventre mentre gli alti ti raschiano via la pelle come se tu stessi scivolando su una grattugia. Ma il rock, se mai è stato di casa qua, si ferma a questo.
Ed è astratto perché non ci sono appigli per chi ascolta. Mancano tutti gli elementi che tradizionalmente identificano l’anatomia di una canzone. Non ci sono riff di chitarra; i ritornelli, se ci sono, non sono quasi mai identificabili all’interno del brano; è assolutamente abolito il concetto tipicamente rock e metal de “il momento dell’assolo”. Questo non significa che la musica sia caotica, tutt’altro. Le canzoni sono costruite in maniera rigorosa e geometrica, ma i Quicksand trovano il loro ordine, sempre presente, in modo assolutamente personale, senza alcun debito nei confronti di quelle che sono le tacite “regole” della musica rock. Non c’è blues, non c’è jazz, non c’è rock, o soul, o metal in questo disco, non c’è traccia di quelle che da sempre sono, a vari livelli, le tipiche influenze a cui quasi ogni artista deve qualcosa. C’è solo la musica dei Quicksand, che esce dalle mani di questi quattro ragazzi come se avessero imparato a suonare i rispettivi strumenti senza mai aver ascoltato un disco altrui in vita loro, bensì solo le loro sensazioni. La loro musica parte da basi astratte, un po’ come succedeva, in chiave aggressiva e hardcore, per quella dei Gorilla Biscuit. I Quicksand, nati dalle loro ceneri, ne costituiscono l’evoluzione più cerebrale.
Post-Hardcore, simplement.
Gli assoli, quando ci sono, sono brevi e nervosi; la voce è meno “canto” e più strumento, col suo periodare asintattico e frammentato, e non relega il resto della musica al rango di suo semplice accompagnamento, bensì si fonde ad essa, ponendosi al suo stesso livello d’importanza e condividendone il destino. La batteria costruisce accenti insoliti in maniere insolite (chi l’ha detto che la rullata debba per forza essere sui tom e non, per esempio, sul charleston?), diventando anch’essa strumento di espressione anziché limitarsi semplicemente a “tenere il tempo” ed eventualmente sottolineare stacchi e cambi. In un disco come questo anche il feedback di una chitarra, lo scorrere distratto del plettro a raschiare le corde, le scariche prodotte dal jack che si infila nel basso diventano musica, nel momento in cui si fondono con un muro di distorsioni compatte, disciplinate da una batteria cronometrica, sfilacciate da una voce sospesa nel vuoto.
E’ una musica che parla di incomunicabilità, dell’essere imprigionati nella gabbia del proprio cervello, in compagnia dei fantasmi della propria mente. Di quando si crede di essere vicini ma in realtà non ci si conosce. Quello che i Joy Division sussurravano, i Quicksand lo urlano.
Un disco enorme e dimenticato, che è un cazzotto nello stomaco ma anche lo sbuffo di colore (grigio) di un pennarello quasi scarico…
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