I Quintorigo hanno rappresentato, verso la fine degli anni '90, l'ensemble musicale più interessante e innovativo della scena italiana, un caso eclatante di liberatoria esplosione di creatività.

Il loro obiettivo artistico è semplice ma al tempo stesso di non facile messa in pratica: dimostrare che non esistono barriere tra i generi musicali, e che la musica è una sola, anzi due; quella buona e quella cattiva! La loro formula è altrettanto semplice ed efficace: utilizzo di una strumentazione interamente acustica, solitamente legata al mondo della musica classica o del jazz, per eseguire un repertorio di composizioni originali che hanno rapporti solo indiretti e derivativi con quei mondi, più l'inserimento di covers prevalentemente legate invece alla strumentazione elettrica, o comunque di altra natura. La loro musica è proprio un calderone di stili e di citazioni, in cui pop, jazz, reggae, rock, hard rock, trash metal, canzone d'autore, tango, bel canto all'italiana, funky e vocalità a cappella trovano una sintesi mirabile quanto coerente.

La formazione, un quintetto, è costituita da un trio d'archi (violino, violoncello e contrabbasso), un multisassofonista ed un vocalist. Questi strumenti sono spesso usati in modo percussivo, pizzicato, ritmico, anticonvenzionale, donando una freschezza invidiabile alla loro musica. Il contrabbasso sa farsi “grancassa”, e il violoncello, il violino e i sassofoni “chitarre elettriche”.

“Grigio”, il loro secondo album, uscito nel 2000, ha caratteristiche di grande maturità artistica e stilistica, e porta alla perfezione le dinamiche interne del gruppo; è con questo disco che i Quintorigo diventano veri maestri del proprio linguaggio. All'epoca il gruppo era ancora capitanato dall'eccezionale John De Leo, il quale è recentemente uscito dal gruppo per intraprendere la carriera solistica. Per chi scrive si tratta del più grande vocalist italiano dai tempi di Demetrio Stratos, gloriosa voce degli Area. L'estensione vocale di De Leo è stupefacente, riuscendo a coprire quasi cinque ottave (come Bobby McFerrin), e la sua intonazione, unitamente alla potenza nell'emissione di cui volendo è capace, lascia davvero increduli. Ma se da un punto di vista prettamente tecnico è ineccepibile, a conquistare davvero è il bellissimo timbro, il carisma, la sua resa emotiva e interpretativa dei testi (scritti di suo pugno), modulati e “recitati” con grande spessore. Ogni parola è accarezzata o pugnalata dalla sua voce, spesso baritonale, con sensibilità e punte di spietata ironia che lasciano il segno. Ciliegina sulla torta le ardite armonizzazioni che De Leo ottiene sovraincidendo dei cori in cui lui stesso è ogni voce, spesso arrivando anche ad effetti urlati, retrò , rumoristici, umoristicamente isterici e schizofrenici. Si ha l'impressione talvolta, che la voce principale sia visitata da pensieri paralleli, contorti, ora infantili ora demoniaci, apparizioni fugaci sui canali destro e sinistro. Altre volte invece, come nella bellissima “Zahra”, la voce di De Leo si fa contrabbasso, batteria, armonica, sassofono, violini, percussioni, creando un vortice ritmico e melodico davvero coinvolgente. Le note gravissime e tenute dell'introduzione sono impressionanti. Una traccia geniale, costituita interamente da sovraincisioni della sua voce. Una dimostrazione che lo stesso studio di registrazione può essere “strumento”, se usato con intelligenza.

Se è giusto celebrare De Leo, gli altri membri del gruppo non sono meno importanti e non vanno certo dimenticati! Sono gli ottimi fratelli Andrea e Gionata Costa, rispettivamente al violino e violoncello, Stefano Ricci al contrabbasso e Valentino Bianchi ai sassofoni. Tutti diplomati al conservatorio, questi musicisti hanno ben poco di accademico o stantio, e al contrario hanno saputo inventarsi un suono di gruppo se non proprio inedito comunque assai originale, e un approccio alla materia suonata pieno di grinta e raffinatezza allo stesso tempo. Sono tutti coautori e coarrangiatori delle splendide composizioni di questo disco.

La Nonna di Frederick lo portava al mare” è una delle più belle canzoni dell'ultimo decennio, dall'incedere un pò reggae; “Grigio”, che scimmiotta Paolo Conte, contiene citazioni “terra-terra” (una pernacchia a Celentano: “il pomeriggio è troppo GRIGIO e lungo per me”) e auliche insieme (Leopardi: “e m'è dolce naufragar!”); “Malatosano” affronta con testo e musica il tema della corruzione spirituale (“linfa e veleno convivono, digerendole sarei quasi sereno, malatosano cronico”); “Precipitango” è un bellissimo pezzo strumentale di carattere agrodolce, impreziosito da un meraviglioso intervento di Enrico Rava alla tromba; “Egonomia” è un grandioso pezzo di heavy metal acustico che surclassa nei risultati i sopravvalutati Apocalyptica (che rifecero i Metallica in quartetto d'archi), e contiene una forte critica socioeconomica, come facilmente si può arguire dal titolo. A sorpresa giunge una cover elettro-acustica di “Highway Star” dei Deep Purple, molto fedele alla versione live contenuta nello storico “Made In Japan”. Gli assoli di sassofono e violino ripercorrono quasi nota per nota le performance di Jon Lord e Ritchie Blackmore, e De Leo come cantante hard rock non avrebbe niente da invidiare a Ian Gillan, con la differenza che l'Inglese non è la sua lingua madre, e si sente nella pronuncia a volte troppo scandita, che deve costantemente “correre” per non restare indietro!

Merita di essere nominato anche il brano fantasma del disco, “Alle spalle” (traccia numero 55), che sembra, anzi è, uno psicodramma teatrale di grande introspezione e crudezza, in cui De Leo racconta e recita in prima persona, con prova superba, le allucinazioni paranoiche del protagonista. Il suo uso della voce sembra venire dritto dritto da una (ottima) scuola di doppiaggio. La musica segue perfettamente l'evolversi altalenante e turbolento della vicenda. Il tutto ricorda certe trasmissioni radiofoniche di una volta, quei radiodrammi spesso prodotti con gran classe e mestiere!

Bellissimo. Linfa e veleno convivono.

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