Los Angeles, California, 1986: luci al neon, automobili veloci, colori sgargianti, vita di eccessi, voglia di metter in musica tutto questo...: così iniziavo la precedente recensione su “Street Lethal”, primo album dei Racer X. La stessa introduzione, con qualche modifica, potrebbe benissimo essere usata anche per questo secondo lavoro della band, “Second Heat”, uscito nel 1988.
Gli ingredienti base della proposta musicale della band, già così ben evidenti nel debutto, sono ancora presenti in abbondanti dosi pure in questo seguito; quindi grandi perizia e capacità dei singoli musicisti e ancora tanta velocità, elementi che si intrecciano in tracce brevi, veloci e che debordano di assoli dall’elevato tasso tecnico, senza mai però scadere in eccessivi e ridondanti virtuosismi (sebbene gli insegnamenti di Malmsteen siano ancora ben presenti nella testa di Paul Gilbert e si facciano ancora sentire sotto forma di numerosi assoli di puro stampo neoclassico).
Alcune “piccole” novità però ci sono e si fanno sentire: innanzitutto la più importante riguarda la formazione che da quartetto passa a 5 elementi, con l’entrata come secondo chitarrista di Bruce Bouillet e con la defezione alla batteria di Harry Gschöesser, sosituito da un certo Scott Travis, che solo un paio di anni più tardi sarebbe diventato noto al mondo metal per il suo contributo alla causa Judas Priest (tra l’altro, non sarà la prima volta che il Prete di Giuda comparirà in questa recensione…).
Sostanzialmente, l’album non si discosta molto da quanto fatto vedere e sentire dalla band sull’esordio: un pugno di canzoni tutte intorno ai 4 minuti, in cui, a frustate dalla velocità elevatissima come l’opener “Sacrifice” o la celebrativa “Motor Man” (dal testo a base di velocità e motori, tanto per cambiare), si alternano pezzi più cadenzati (“Gone Too Far” e la conclusiva “Lady Killer”) ed ancora altri in cui la velocità a tutti i costi viene invece sostituita da una notevole ricerca melodica: è il caso della trascinante “Hammer Away” e ancor più di “Living the Hard Way”, forse il brano più melodico e potenzialmente commerciale del gruppo, con il suo ritornello di facile presa, non lontano da certe atmosfere glam del periodo. Tra le tracce troviamo anche una notevole ballad, “Sunlit Nights”, un’inusuale cover di David Bowie (“Moonage Daydream”, qui in “versione-shred”) e l’irrinunciabile pezzo strumentale a nome “Scarified”, in cui prima Gilbert, poi Bouillet ed infine anche Alderete ed il suo basso trovano ampio spazio per dimostrare di che pasta son fatti.
Un buon album, sicuramente più vario del precedente, ed allo stesso modo contraddistinto dall’indubbio tasso tecnico di ognuno dei componenti ed anche dall’ugola potente ma ancora una volta fuori controllo di Jeff Martin, che risulta decisamente migliore nelle parti più melodiche e non quando cerca l’acuto a tutti i costi. Album che si rivelerà l’ultimo della prima fase di carriera della band che, dopo un paio di live, si scioglierà (e i suoi componenti migreranno e troveranno migliori fortune altrove, in band del calibro di Mr. Big e Badlands, solo per citarne alcune…) prima della reunion di fine anni ’90.
A proposito, dicevo prima dei Judas Priest: scorrendo i crediti della tracklist, ci si imbatte nella traccia numero 6, “Heart of a Lion” a firma Halford-Tipton-Downing… eh sì, proprio loro: si tratta infatti di una traccia composta ai tempi di “Turbo”, scartata e “venduta” ai Racer X, che in seguito si sdebiteranno cedendo agli inglesi Scott Travis. (Per inciso, la traccia risulta esser migliore di tutto quanto fatto dai JP su “Turbo”, ma questa è un’altra storia…)
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