L'ho lasciata decantare due anni questa canzone. Era necessario. Troppo bella e troppo difficile, attira e respinge allo stesso tempo. Quella bellezza che hai paura ad assumere a grandi dosi perché fa un po' male e ti chiede sempre qualcosa in cambio, ti logora un poco. E allora l'ho sempre ascoltata con parsimonia, perché la fatica del percorso era uguale o superiore al piacere che provavo.

Dopo due anni è scattato qualcosa e mi sono aperto completamente a questo dolore in pillole, nascosto in un cucchiaio di miele. E credo di aver capito davvero l'anima della canzone, che sta proprio in questo paradosso: la perfetta compresenza di amore, sogno, luce e danno, mancanza di tempo, impotenza. Fino al piegarsi, ad accettare la propria dimensione funzionale rispetto a qualcun altro, come Prufrock, “glad to be of use”.

È la perfetta immagine dell'uomo di cinquant'anni che è stato abbandonato dal tocco dell'amore, che continua a sperare (“Dreamers, they never learn”), ma sa che ormai è tardi per nuovi inizi (“It's too late”) e la strada che ha intrapreso nella sua vita ormai è definitiva, quel che è fatto è fatto (“The damage is done”). Il suo amore con Rachel è finito, ma non c'è una nuova possibilità per la sua vita, l'eredità di quanto fatto sarà per sempre con lui: “Beyond the point of no return”.

Ma in Daydreaming ombre e luci si compenetrano, come a voler rappresentare in un unico momento la condanna dello stare al mondo e l'inesauribile serie di porte che si possono aprire nella vita (come da video di P. T. Anderson). Ma a un certo punto non agisci più in base alla tua volontà, sei guidato da altro: “This goes beyond me, beyond you”. Ci sono altre anime che dipendono da me e da te, non possiamo più essere egoisti. E nella dolce sofferenza di queste parole e di una musica incantata ma anche ansiogena, un'immagine di pura bellezza: la luce del sole che entra dalla finestra, in una stanza bianca. Una gioia sensoriale, del puro stare al mondo, non certo un godimento razionale o affettivo.

Gli affetti hanno prostrato Thom, che rappresenta l'uomo adulto. Tanto che alla fine si trova contento anche solo a servire, a essere d'aiuto alla ex compagna, al crescere bene i figli. È una pietra tombale e una estrema, imprevista speranza dell'uomo di fronte al fallimento dell'esistenza (ma non personale, ontologico del vivere proprio). Il danno è fatto ma la vita è sognare a occhi aperti, il piano della realtà e quello della possibilità si confondono. Le condanne quotidiane e i bagliori di bellezza inaspettati coesistono in perfetto equilibrio.

E la musica dice tutto questo, con un giro di pianoforte ipnotico, come nella routine di aprire infinite porte esistenziali, logorante; eppure c'è tanto spazio per la bellezza, una bellezza austera, compostissima ma anche per questo indelebile, come una primavera che esplode in pochi secondi, ma quasi vergognandosene, evitando di essere sfrontata nella sua grazia. (E questo pudore si ritrova un po' in tutto il disco). Musica che illumina, che trasmette proprio l'immagine di una luce abbagliante, che inonda di calore ma accieca, stordisce.

E il finale è un crepuscolo, con il rantolo di Thom che rimugina sulla sua esistenza, ricordando a Rachel che hanno passato insieme metà della loro vita. Per sottolineare che ha ricevuto tanto, ma dato altrettanto. Come questa canzone, che mentre di culla, ti avvelena un po', dolcemente. E allora cosa resta da fare? Rifugiarsi, chiudersi in una grotta scavata nella neve, con un fuocherello.

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