Un sole invernale che entra oniricamente attraverso i solchi della mia tapparella. Una brina lontana e indefinita. Una nebbia che avvolge il tutto. Le palpebre pesanti non vogliono aprirsi trafitte da un'ombra ossessiva e tagliente.

Una tastiera lontana che comincia a ritmo con i passi striscianti di una neve appena caduta, un urlo lontano... "Everything In Its Right Place" sposa l'oscurità perenne con una frase al limite del subliminale che si ripete quasi come un dolce inno supersonico, percorso da improvvise esplosioni vorticose di voci distorte. L'urlo rivoluzionario di un mondo ormai caduto in un oblio coperto da neve fredda.

La punta di cristallo di un'opera che gira come un caleidoscopio impazzito, come un carillon fatto di LSD. Svegliandomi succhiando un limone ho scoperto che nella mia mente ci sono solo colori vuoti. Ieri.

In quel vortice, in quella spirale di perversioni parte levigata quella title-track dal sapore nevoso e invernale: suoni del più raffinato e suadente glitch, come impronte impresse in un bianco spettrale, a ricoprire tutto. Voce robotica dal cuore d'oro. Fasulla dolcezza di un'improvvisa apertura di percussioni. Una bellezza, un pezzo di cristallo appena intagliato, formato da un inchiostro vecchio di secoli e "The National Anthem", con quell'incipit di chitarra a braccetto con una ritmica illusoria e rockettara... stormi che si librano nel vento sullo sfondo di un delirio jazz-blues che tocca il cielo, attraverso la solita fenomenale tonalità di Thom Yorke, dolente e lamentosa, ma non priva di emozioni forti e tangibili. Un aneurisma fatto in musica: esplode dopo il silenzio, dopo un fallito tentativo di normalizzarsi c'è l'esplosione: quei fiati e ottoni jazz che si rincorrono come in una caccia sonora dai mille volti.

E poi tutto quel delirio si sbriciola, sotto la visione di una catena montuosa trasparente, del ghiaccio più fragile ma al contempo possente, alla base di un cielo rosso fuoco. A tratti dormiente e vermiglio. Visione apocalittica accompagnata da una chitarra acustica sognante e romantica, incrociata da improvvisi scorci sonori che partono e rifuggono in un timido sospiro invernale, prolungato in "Treefingers": atmosfere sospese in un limbo metafisico, come le anime che attendono qualcosa che non possono ottenere dell'inferno dantesco.

Punto di non ritorno è quell'"Optimistic" screziata e trascendente, che parte come una sorta di nenia rock per poi svegliarti dal tuo dormiveglia esistenziale con dei lamenti sempre più melodici e apocalittici. Ricomincia a nevicare e arriva come manna dal cielo "In Limbo": la neve appena caduta ricopre nuovamente tutto di bianco, come un circolo vizioso, e rende felici. Ritmica spezzata, improvviso scalpitio sonoro. Stai solo vivendo in una fantasia.

Pum, pam, papum... grandina, grandina forte ed è "Idioteque", l'apice, perla preziosa d'oltreoceano, scoppiettante ma non allegra, devastante al punto giusto. Si butta contro l'orizzonte come se fosse vita contro la morte (o viceversa) gridando fino a perdere la voce. "Prima le donne e i bambini... l'era glaciale sta arrivando". Ritmi che si rincorrono, sguardi gelidi, voce tagliente. Un sibilo che tenta di riportare l'ordine. Inverno che si avvicina. Arriva "Morning Bell", striscia come carne morta su una ritmica ancora più decisa, ancora più funerea. Amore  e morte.

"Motion Picture Soundtrack": l'ultimo amore a primo ascolto. Il film è finito. Si può tornare a vivere. Non senza emozioni devastate, né la timidezza di una volta. Tramonto.

Dolce candido risveglio.

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