Ok ora non voglio sentire una parola sul fatto che questa è la quattromilaseicentoquattordicesima recensione dei radiotesta. No. Perché le recensioni sono inutili nel momento in cui nulla aggiungono a livello concettuale per meglio apprezzare l’opera rispetto alle già presenti recensioni. E presa coscienza del fatto che Kid A è un album fondamentale della musica moderna e nessuno ma proprio nessuno è riuscito a spiegarne il perché, ecco il vecio angelo nero sempre puntuale a chiarir la faccenda ed a ridare un minimo di meritata gloria ad un gruppo ormai ritenuto sputtanato. Tristessa.

Kid A è un affresco dell’epoca postmoderna. L’epoca postmoderna è l’età del ghiaccio. Kid A è il ritratto del ghiaccio. Viviamo in un mondo nel quale oscure forze poi non tanto oscure tendono a freddare ogni slancio vitale. Un mondo nel quale siamo immersi in una mastodontica rete di rapporti secondari (mi scusino il rimando sociologico) che atrofizza ogni senso di compassione e di apertura. Un mondo nel quale i grandi flussi di comunicazione di massa tendono a spersonalizzare gli individui che a tale flusso rimangono alieni e che svuota d’ogni calore gli umani sentimenti di cui tratta (tematica fra l’altro sviluppata dagli stessi in “Let Down” di Ok Computer).

Viviamo all’interno d’un grande cubo di ghiaccio.

Con “Everything In Its Right Place” affiora una piccola crepa nel ghiaccio. La pazzia. L’insensatezza. Diceva Dostoevskij che non è detto che per l’uomo la cosa più vantaggiosa sia ciò che è razionale calcolare come vantaggioso. A volte è molto più vantaggioso fare la più stupida delle cose per spezzare quel freddo equilibrio di razionalità che ci imprigiona nei nostri schemi matematici. Per poter conservare quel briciolo di umanità e di personalità che solo può salvarci dall’implosione della nostra società. La canzone srotola una trama elettronica di gelida melodia, senza picchi d’intensità, senza esplosioni di emotività. I Radiohead costruiscono una nuova struttura musicale fondata sulla piattezza e su un’armonia imprigionata nel proprio gelo. L’unica modifica sonora si ha nei sussulti della voce che oserei definire “rincoglionita” dell’alienetto, quando canta “yesterday I woke up suckin a lemon”, “there are two colours in my head”, “what, what is that you tried to say”. Sulle apocalittiche tastiere che continuano a suonare il tutto al posto giusto, si staglia una nota stonata, un soffio d’insensatezza che incrina leggermente la perfetta cristallizzazione del mondo glaciale.
La nota stonata è rappresentata dal bambino A, frutto imperfetto d’una produzione industriale (notare la contemporaneità dell’album con i primi successi delle pratiche clonatorie). Il bambino A è l’essere pazzo che sta alla musica un po’ come Zeno Cosini o lo stimatissimo principe Lev Nikolaevic Myskin stanno alla letteratura, quel temibile individuo “diverso” capace nella propria inettitudine di incrinare il polare equilibrio di una società fondata da uomini in serie, fatti con stampino. Kid A è inconsapevolmente l’evoluzione.

“I topi e i bambini mi seguiranno fuori dalla città
I topi e i bambini mi seguiranno fuori dalle loro case
Andiamo, bambini”

Ed ecco che arriva il ritmo ossessivo, sempre uguale, senza alti o bassi, ma questa volta travolgente di “The National Anthem”. Si dipinge ora la società, con un capolavoro d’ironia e metafora. Nel continuo giro di basso arriva la sempre lagnante ma ancora rincoglionita voce dell’alienetto a tratteggiare in quattro parole un mondo dove sono tutti apparentemente vicini nel timore e nell’attesa. Il colpo di scena avviene con lo scoppio di quell’orgia di trombe e tromboni e trombette che spiazza qualsiasi timpano musicalmente assennato. I fiati metton giù uno accanto all’altro assoli sordi e sfrenati, bassi o acuti che siano. Ed è incredibile il modo in cui rimandano alle voci della società, voci lagnanti, voci eccentriche, voci chiassose, voci piangenti, voci poderose, tutte accomunate dalla stessa incuranza per l’altro. Ne vien fuori un caos cosmico che avvolge lo stesso urlo del travolto alienetto e che getta un pesante velo di pessimismo e di incomunicabilità sulla società tutta.

Il ghiaccio continua a sciogliersi.

E si passa così al capolavoro. “How to Disappear Completely” è la vita. Può essere considerata la perfezione in ambito musicale dell’ottica Kunderiana dell’insostenibile leggerezza dell’essere. La voce dell’alienetto danza trasportata nell’onirica culla melodica che viene intessuta dalla chitarra acustica e periodicamente attraversata da una linea di violino discendente.

“That there
That's not me
I go where I please
I walk through walls
I float down the Liffey

I'm not here
This isn't happening
I'm not here

In a little while
I'll be gone
The moment's already passed
Yeah it's gone

And I'm not here
This isn't happening
I'm not here

Strobe lights and blown speakers
Fireworks and hurricanes

I'm not here
This isn't happening
I'm not here”

Potremmo accostare l’uomo ad una foglia che danza immersa nella sua vita di alti e bassi ed i violini a folate di vento che spazzano via tutte le foglie che fluttuano nell’aria. L’uomo prende coscienza del suo essere una foglia al vento, della leggerezza abissale d’ogni sua azione, dell’inconsistenza ontologica della sua esistenza, di fronte all’infinità spaziale e temporale della vita. Ma l’incontrollabile danza della nostra piccola foglia arriva ad un finale commovente quando la voce di Thom viene supportata dall’orchestra di violini in un drammatico crescendo di passione disperata, per poi perdersi anch’essa nell’ultima folata, dove la voce viene inghiottita dal vento e così la foglia dalla sua morte.
Abbiamo per la prima volta un sussulto emozionale nell’album, ma in realtà si tratta di uno slancio solo apparente. La visione della vita in "How To Disappear Completely"ci riporta ad ogni modo ad un gelo metafisico che libera di ogni significato e di ogni calore le vicende umane, e relega i “fuochi d’artificio, le luci stroboscopiche e gli uragani” ad una realtà illusoria e comunque segregata alla piccola mente del singolo individuo. Una nullità nell’oceano infinito dell’universo.
Ecco spiegata la presenza di una musica ancora più glaciale come “Treefingers” successivamente, con una struttura dilatatissima e quasi immobile. Si tratta dell’unica canzone che logicamente potrebbe seguire "How To DisappearCompletely", proprio per rivelarne l’inganno emotivo.
Arriviamo dunque a "Optimistic", che lascia ancora più sbigottiti per il ritmo rock completamente in contrasto con tutto ciò che fino ad ora abbiamo ascoltato. Da questo punto di vista probabilmente non avrebbe sfigurato nemmeno in Pablo Honey. Anche nel testo compare un’evidente frattura:

“You can try the best you can
If you try the best you can
The best you can is good enough”

vi chiederete: e ora cosa cazzo c’entra tutto ciò? E invece ecco svelato il mistero all’ultima strofa: 

“Dinosaurs will roam the earth”

Non c’è che dire, è una graziosa presa per il culo, del tipo: si può dare di più senza essere eroi, ma tanto poi i dinosauri domineranno la terra. L’alienetto urla in faccia al mondo anche la stessa impossibilità di muoversi per cambiare qualcosa, un’immobilità dell’umanità che non lascia altra strada che vomitarsi addosso la propria disperazione. In fondo il nostro non è altro che vivere in un limbo di illusioni:

“Stai vivendo in una fantasia
Mi sono perso nel mare
Lasciami stare
Ho smarrito la mia strada”

Siamo arrivati a "Idioteque". La sorda rivolta del bambino A ha comunque parzialmente incrinato il ghiaccio. L’impressione che ho sempre avuto ascoltando la canzone è l’immagine di un Thom Yorke intrappolato col corpo nel ghiaccio, ma che riesce a cacciare la testa fuori e ad urlare, in un climax di schizofrenia e rabbia. Ad urlare “ice age coming”. Il senso di claustrofobica rivolta è alle stelle. E la cosa paradossale è che tale claustrofobia è segnata proprio dalla libertà: 

“Qui mi è permesso
tutto in ogni momento”.

È la libertà del ventesimo secolo, una libertà che nella sua corruzione e nei suoi compromessi si trasforma nella massima prigione spirituale ed intellettuale. La prima volta che ho ascoltato “Morning Bell” le parole “cut the kids in half” mi hanno messo i brividi, perché provenienti da un climax in cui pareva che l’uomo stesse pian piano ritrovando la propria dimensione razionale. Qui il pessimismo cosmico si proietta in una piccola tragedia familiare, dove un uomo che perde la propria famiglia si contorce nella propria fredda e allucinante pazzia. Il testo sembra riferirsi ad un flusso di coscienza di joyciana memoria, che però viene spezzato dal macabro pensiero di tagliar in due i propri figli come unico modo per dividerli con la moglie. Tutto viene assorbito dal gelido tepore dei soliti accordi di tastiere, che conducono tutte le crepe che iniziavano a intravedersi nel ghiaccio cosmico ad una cupa e folle disperazione. Una disperazione silente.
Una follia che viene in ultimo inglobata in un dolce ed affettuoso sorriso. È “Motion Picture Soundtrack”, l’atto conclusivo di questo piccolo viaggio fra tentativi e fallimenti, urla e rassegnazione. La follia trova un’armonia nella serenità della coscienza dell’uomo. Tra lire ed arpeggi melodiosi. 

“I will see you in the next life…”

Chapeau.

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